società
WELFARE. Ciclo di incontri per parlare di volontariato
Non amo i radicalismi, ma altrettanto fuggo dalle forme indefinite che inglobano tutto e il suo contrario.- Stefano Cugini

Print Martedì 14 maggio nella sede dell’Unione Provinciale di viale Martiri della Resistenza 4 si è tenuto il quarto incontro del ciclo sul Welfare organizzato dal PD.

Nell’occasione si è parlato di volontariato, tema sul quale sono intervenuti, oltre al sottoscritto (in qualità di vice presidente Svep), anche:

  • Raffaella Fontanesi direttore di SVEP
  • Marco Marchetta, direttore AUSER
  • Itala Orlando dirigente ASP AZALEA.

Gli incontri, in totale 5, sono stati promossi dal Gruppo di lavoro sul welfare del PD e sono sempre stati aperti a tutti gli interessati. Credo che sia davvero questo il metodo per avvicinare le persone alla vita di partito: occuparsi di temi precisi e sentiti, promuovere il dialogo e aprirlo il più possibile all’intervento di tutti.

 

Ecco le slides della mia relazione:

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partecipazione
Carcere, solidarietà e festival
La politica non si salva con le frasi a effetto, ma con il cuore e la passione di chi sente il privilegio, nei diversi ruoli, di rappresentare una comunità intera. Con la disponibilità di chi coglie il dovere di creare condizioni e occasioni per gli adulti del futuro. Con serietà, piedi per terra e coscienza di cosa vuol dire essere “cittadino”. Chi ama la politica cerca le persone, non le categorie. Chi ama la politica, prova a unire.- Stefano Cugini

La Festa Nazionale del Terzo Settore organizzata dal Partito Democratico prima, il Festival del Diritto poi. Settembre si preannuncia un mese di grandi appuntamenti a Piacenza, accomunati dal fil rouge tematico della solidarietà. [more…]

Intorno a questo concetto di fondo ruotano altre suggestioni, su welfare, partecipazione, sicurezza, cittadinanza attiva, conflitti, su cui saranno incentrati dibattiti e approfondimenti.

Lo spunto per questa riflessione è stato un articolo del 23 agosto, in cui don Affri, cappellano della casa circondariale di Piacenza, parla di due detenuti che hanno scelto di usare i loro giorni di permesso per stare accanto ai terremotati dell’Emilia. Poche righe intrise di speranza e aspettative nei confronti di queste persone; una breve storia di solidarietà appunto, ricevuta e rimessa subito in circolo.

L’occasione mi sembra opportuna – alla luce dei recenti dati sull’aumento dei reati diffusi dal Sole 24Ore – per affrontare il tema scomodo del carcere e contrapporre una chiave di lettura alternativa a chi punta come al solito sulla pratica scorciatoia dell’allarme sociale. A muovermi non è scienza infusa, ma il desiderio di proporre alcune osservazioni un po’ meno a fior d’acqua.

Coniugare la solidarietà all’idea del crimine e della reclusione non è così semplice. Questi ultimi sono facce della stessa medaglia ma, mentre dare giudizi sull’azione in sé è pratica comune – spesso esercitata a sproposito, del mondo dietro le sbarre, di cosa succede dopo, si fa più fatica a parlare.

Sembra di puntare il dito su una brutta cicatrice che sfregia la città: si preferisce chiamarlo in causa con parsimonia, giusto se l’occorrenza è vantaggiosa, quasi a non voler disturbare il nostro quieto (mica tanto, ultimamente) vivere borghese.

Qui non si parla di aiutare bimbi senza famiglia, ma di pensare a galeotti che scontano una pena: «bisognerebbe buttar via la chiave», «ci vorrebbero i lavori forzati», «i penitenziari sono alberghi a quattro stelle» e via discorrendo, in un campionario di frasi fatte che noi brava gente impariamo molto presto a rivolgere ai cattivi, mai troppo puniti.

Il punto sta però proprio nella capacità o meno di affrontare il problema in modo serio, senza preconcetti. Di certo è difficile, perché chi dovrebbe aiutarci a capire preferisce tenerci sulla corda e chi avrebbe facoltà di replica non si sogna di esercitarla. Difficile. Soprattutto perché abbiamo bisogno di chi sbaglia: il capro espiatorio è una figura insostituibile, per la nostra armonia cognitiva e per la nostra coscienza svogliata.

Solidarietà, sicurezza, criminalità, carceri. E numeri. Si, perché le cifre sono importanti ma vanno interpretate con un minimo di onestà. Bisogna sapere e voler distinguere tra quello che appare e quella che è la realtà effettiva.

Prendiamo gli stranieri: gli immigrati delinquono più o meno di noi? Affidandosi al sentire comune la risposta vien da sé e per molti i numeri sono lì a certificalo.

Intanto, questione di non poco conto, il calcolo sulla minore o maggiore criminalità andrebbe fatto computando davvero tutti gli stranieri presenti in Italia, mentre le cifre ufficiali riguardano solo quelli effettivamente regolari (circa un quinto rispetto al totale); già questa accortezza vedrebbe crollare le percentuali del coinvolgimento degli immigrati rispetto ai delinquenti nostrani.

Non facciamoci poi trarre in inganno dal numero di stranieri nelle nostre carceri. A differenza degli italiani, non hanno di fatto possibilità di sottrarsi alla custodia cautelare: l’assenza di una rete sociale d’appoggio (manca una residenza e una famiglia che faccia da garante), rende quasi impraticabile la strada del rilascio in attesa del procedimento giudiziario. Stesso discorso vale per le misure alternative, di più difficile accesso per un immigrato che non per un italiano. Da questi presupposti è naturale che la popolazione carceraria sia così connotata.

Non bastasse – ma in pochi lo dicono – non vi è quasi traccia di rilevazioni che tengano in debita considerazione un elemento chiave quale il c.d. “numero oscuro”, ovvero quella fetta di reati (si pensi ai falsi in bilancio, alle evasioni fiscali, alla bancarotta fraudolenta, ai reati ambientali, alle frodi informatiche) nei quali statisticamente si annidano più italiani, quei parassiti in colletto bianco che in altri Stati chiamano criminali e trattano di conseguenza, mentre da noi continuano a recitare la parte dei furbi.

Quando snoccioliamo dati, purtroppo, abbiamo una generale tendenza a mettere sotto potenti riflettori “gli altri” e a nascondere più volentieri “i nostri”. De facto, lo straniero, reo di una delinquenza più di strada e molto meglio individuabile, finisce col diventare il candidato ideale su cui vengono stilati quei report e quelle statistiche che influenzano l’opinione pubblica.

Ma torniamo alla questione carceraria. Il superamento della concezione retributiva (in cui a una data violazione risponde una sanzione definita e uguale per tutti, a prescindere dalla personalità del soggetto) rappresenta la radicale innovazione in tema di politica criminale che ereditiamo dal ventesimo secolo.

L’evoluzione giurisprudenziale verso il principio del trattamento rieducativo e risocializzativo ha portato ad accantonare il sistema tariffario, in favore di una nuova idea di pena utile, capace non tanto di punire quanto piuttosto di eliminare i fattori che hanno portato alla delinquenza. È l’affermarsi del welfare state, con lo Stato garante e promotore del benessere sociale di tutti i cittadini.

Scelte politiche, si badi bene. La precisa volontà di costruire un percorso sanzionatorio meno gravoso per la società (anche e soprattutto in termini economici)  e con una minore esposizione al rischio di restituire un soggetto con poche prospettive di reinserimento e fortemente indiziato alla recidiva. Si è scelto di non decontestualizzare i detenuti dal mondo esterno, dimenticandoli in cella a riflettere sul male compiuto, ma di favorire atteggiamenti e stili di vita conformi alle norme sociali condivise.

Da queste impostazioni, pur oscillanti nei decenni tra letture più permissive e altre più restrittive, emerge l’incompatibilità tra il concetto di risocializzazione e l’assunto per cui serva “buttar via le chiavi”, nonché l’evidenza di un percorso di recupero vincolato al contributo collettivo.

Ed eccoci di nuovo alla solidarietà, intesa nella sua accezione migliore, come sforzo attivo verso chi ha bisogno di aiuto; anche senza volerlo torna, con prepotente evidenza, l’aspetto culturale. Una sensibilità profonda come quella di Alessandro Bergonzoni ha usato in proposito queste parole:

stabiliamo un rapporto tra asili e carceri, tra ospedali e scuole elementari per “andare a vedere” fin dall’età più giovane, per “usare le mani dell’anima”, per entrare con le stesse chiavi che dovrebbero buttare per darci la sicurezza, a far parte di cosa ci spetta (e ci aspetta), sia come futuri carcerati sia come future vittime

Una comunità è fatta di cinema, teatri, ospedali, sagre, campi sportivi, scuole, uffici,… carcere. È come giocare con i Lego: dobbiamo prendere quel mattoncino e spostarlo più vicino a tutti gli altri, ridurre le distanze fisiche, mentali e ideologiche.

Volenti o nolenti, non esistono altri a cui rimettere la competenza su questo tema. Farlo significa nascondersi, escludere una parte che è nostra a pieno titolo, rinviare ai nostri figli la ricerca di una soluzione più dignitosa e soprattutto più utile alla società globalmente intesa.

Scontare una pena è dolore, rabbia, devastazione psicologica e sociale, ma ha il dovere di essere anche e soprattutto speranza, per chi entra e per chi aspetta fuori, perché in carcere non ci finiscono solo i Riina, i Brusca e i Provenzano e per un delinquente irrecuperabile ci sono cento scelte sbagliate da non rifare, attimi girati male che non possono precludere un’altra opportunità.

Dentro a tutto ciò stanno temi come lo sviluppo delle misure alternative alla detenzione, la gestione del conflitto tra gli autori dei reati e le vittime (in senso lato, tra le rispettive famiglie o addirittura le comunità di appartenenza), l’ambizione volta a una pena veramente ecologica, così come l’amica Carla Chiappini ha definito

«quella che non lascia residui tossici nei condannati e nella società. O almeno ci prova»

In definitiva, benché coscienti che anche questo sistema è tutt’altro che perfetto, la constatazione del fallimento delle strategie repressive e una decisa presa di distanza da chi auspicherebbe, ancora e nonostante tutto, il ricorso a questo tipo di misure.

Serve uno sforzo verso la conoscenza, non l’impegno a costruire nuovi muri, nuove celle. È importante più che mai bandire il pregiudizio, coltivare il dubbio, aver voglia di approfondire.

Accedere a queste realtà con informazioni sempre e solo di seconda mano ci porta a dimenticare che dietro alle parole degli altri e alle immagini ci sono comunque le persone, anche quelle che decidono di rinunciare a un permesso per stare accanto ai terremotati.

La scelta, quando il nostro ego si trova di fronte a un alter in difficoltà, resta circoscritta tra l’abbandono e la solidarietà, con le relative conseguenze: non è necessario compierla per bontà d’animo, basta farlo per intelligenza.

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memorie resistenti, partecipazione
Francesco Daveri
La politica non si salva con le frasi a effetto, ma con il cuore e la passione di chi sente il privilegio, nei diversi ruoli, di rappresentare una comunità intera. Con la disponibilità di chi coglie il dovere di creare condizioni e occasioni per gli adulti del futuro. Con serietà, piedi per terra e coscienza di cosa vuol dire essere “cittadino”. Chi ama la politica cerca le persone, non le categorie. Chi ama la politica, prova a unire.- Stefano Cugini

Francesco Daveri (Emilio)

Francesco Daveri (Emilio)Nato a Piacenza il 1° gennaio 1903, morto a Gusen il 13 aprile 1945, avvocato, medaglia d’argento al valor militare alla memoria.

Di anni 42. Nato a Piacenza il 1º gennaio 1903. Avvocato.
Coniugato e padre di 6 figli. Frequenta il Seminario vescovile di Piacenza fino al ginnasio, poi, nell’ottobre del 1919, è ammesso al Collegio Alberoni.
Nel 1921 abbandona la carriera ecclesiastica ed entra a far parte della “Gioventù cattolica” e della “Federazione universitaria cattolica italiana” (FUCI). Nell’ottobre del 1922 diventa membro del Consiglio della Federazione diocesana, di cui è nominato Segretario per la propaganda nel 1924 e Segretario per le missioni nel 1926. Dal 1927 al 1929 è nel gruppo dirigente della FUCI, poi, dal 1930, la sua adesione alle federazioni e ai circoli cattolici si intiepidisce, in concomitanza con il progressivo accendersi della sua militanza antifascista.
Accanto all’impegno nell’Azione Cattolica, nei primi anni 30 Daveri comincia ad allacciare rapporti e relazioni con molti antagonisti del regime. Nel dicembre del 1942 la sua famiglia è sfollata a Bobbio (PC), ma egli decide di rimanere a Piacenza: qui infatti può svolgere al meglio sia la professione di avvocato che l’attività di oppositore al fascismo. Dopo il 25 luglio 1943, interviene presso il prefetto De Bonis per far scarcerare coloro che avevano manifestato tra le vie del capoluogo per la caduta di Mussolini.
Il 1º settembre lo stesso De Bonis lo nomina Membro della Giunta provinciale amministrativa.
Dopo l’8 settembre è tra i fondatori del Cln di Piacenza, che si costituisce e riunisce periodicamente nel suo studio. Attivo su diversi fronti, grazie alle sue conoscenze all’Arsenale militare ed in varie caserme piacentine gestisce ed organizza il rifornimento di armi per le prime bande partigiane dislocate in Val Nure ed in Val Trebbia.
Condannato dal tribunale della RSI a 5 anni di reclusione per aver bruciato un ritratto di Mussolini (il 26 luglio) assieme all’amico e compagno Raffaele Cantù, nel gennaio del 1944 Francesco Daveri entra in clandestinità, assumendo l’identità di Lorenzo Bianchi. Il 16 marzo 1944 è costretto a rifugiarsi in Svizzera; a Lugano entra in contatto con i servizi segreti alleati, ed in particolare con quelli britannici.
Proprio in virtù di questi rapporti, nel luglio del 1944 ritorna in Italia, a Milano, a svolgere importanti mansioni per conto del Servizio informazioni del Comando generale del CVL. Nello stesso mese Ferruccio Parri in persona gli affida l’incarico di gestire gli scambi di denaro, armi e approvvigionamenti tra Emilia-Romagna, Piemonte e Lombardia.
Il 4 agosto è nominato anche Ispettore militare per il Nord Emilia.
Tradito da una delazione, Daveri è arrestato il 18 novembre 1944 da alcuni membri dalla SD-SIPO (la polizia di sicurezza tedesca), che irrompono nell’edifico al civico numero 1 di Via Sandri, a Milano, dove egli sta organizzando un grosso trasferimento di materiale bellico e grano tra Milano e Piacenza.
Arrestato con l’accusa di spionaggio, è incarcerato a San Vittore con il nome di Lorenzo Bianchi (come risulta dal registro del penitenziario). Torturato ed interrogato più volte all’Hotel Regina (sede della Gestapo e delle SS di Theodor Emil Saevecke), ogni tentativo di liberarlo fallisce.
Il 16 gennaio 1945 è inviato al Lager di Bolzano, e vi rimane per circa due settimane. Il 1º febbraio è caricato su uno degli ultimi convogli ferroviari diretti a Mauthausen, dove giunge il giorno 4 dello stesso mese.
Trasferito nel sottocampo di Gusen II, è destinato al lavoro nella cava di Sankt Georgen. Ammalatosi a causa delle terribili condizioni di prigionia, si spegne nell’infermeria del lager nella notte tra il 12 e il 13 aprile 1945.
Dopo la liberazione gli è stata conferita la Medaglia d’argento al valor militare alla memoria, la Medaglia d’oro al valor civile (assegnata dal Comune di Piacenza, in data 23 aprile 1965) e l’Attestato di benemerenza da parte del Comando Alleato.
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partecipazione
MEMORIA. Resistenza, verso il 25 aprile: Paolo Belizzi
È inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.- Italo Calvino

Si avvicina la data per eccellenza della nostra Repubblica, quel 25 aprile che significa liberazione, fine del giogo nazi-fascista, speranza, futuro. Piacenza ha un posto speciale in questa storia e ricordarne i protagonisti è un dovere, oltreché un regalo per i più giovani.

copertina del libro "Quelle che non fanno storia" - pagine della cospirazione antifascista a Piacenza

Paolo Belizzi nasce a Quercioli di Podenzano in una famiglia contadina nel 1906. Giovanissimo è avviato al lavoro di falegname, che eserciterà con grande maestria per oltre mezzo secolo.

Con il fratello maggiore Mario è tra gli Arditi del popolo di Piacenza che, nel 1921, sotto la guida dell’anarchico Emilio Canzi, contrastano il nascente fascismo. Organizzatore del grande sciopero delle bottonaie del 1930, nello stesso anno è arrestato per propaganda antifascista: condannato al confino (Lampedusa e Lipari), viene liberato alla fine del 1932, in occasione dell’amnistia promulgata nel decennale della marcia di Roma.

Nuovamente arrestato nell’aprile 1943, esce da San Vittore il giorno dopo la caduta del fascismo, il 26 luglio. All’indomani dell’8 settembre è tra i più attivi nell’organizzare la lotta contro fascisti e nazisti, dando vita alle prime squadre Gap e Sap in città.

E’ tra i fondatori del CLN di Piacenza, di cui sarà membro fino all’estate 1944 e, nello stesso periodo, segretario della federazione comunista. Il suo laboratorio di falegnameria in via Benedettine è un punto di raccolta e smistamento verso tutta la provincia di armi e stampa antifascista. Dopo la liberazione, è componente della Commissione provinciale di epurazione.

Nel dossier dei perseguitati politici della questura di Piacenza, Belizzi è definito come “l’elemento più pericoloso tra gli antifascisti“.

Paolo Belizzi […] nasce all’inizio del Novecento, penultimo dei sette figli di una famiglia contadina, in Comune di Podenzano. […] il suo apprendistato lavorativo umano politico-morale si concreta negli anni immediatamente successivi all’enorme e insensata tragedia della Grande guerra, tra biennio rosso e nascente fascismo. […] Scrive: «Nonostante la mia giovane età, cominciai ad odiare chi faceva il doppio gioco, anche se non ero in grado di valutare chi avesse torto. Capivo però che era una vigliaccheria tenere il piede in due scarpe. Per conto mio, date le condizioni della famiglia da cui provenivo, non potevo che stare dalla parte dei poveri e quindi a sinistra».

[…] Sin dall’inizio il suo antifascismo si nutre di severità morale, un tratto che caratterizzerà il Belizzi in maniera permanente. […] Belizzi scelse subito di essere “intero, non astuto” – integro, leale, non doppio – e dovette capire ben presto, credo, che la fedeltà alla propria parte non esclude, anzi implica, di essere critici e vigili sulle ragioni e i valori originari, che tali restano solo se continuamente riverificati (rigenerati) nelle circostanze della vita, personale e collettiva. Sempre ben alla larga da quel “gattopardismo”, a tal punto costitutivo di questo paese, da sopravvivere ai crolli dei Muri e alla globalizzazione.

[…] Belizzi scelse non solo la parte giusta, ma, aggiungerei, il modo giusto di starci: in prima fila di fronte alle responsabilità e agli oneri (l’attività cospirativa, il confino, l’isolamento, il carcere, i continui e tremendi rischi dell’organizzazione della Resistenza in città); lontano o allontanato, in disparte, ai margini, quando giunse il momento degli onori.

Gianni D’Amo

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