CARCERE. Messi alla prova, la giustizia di comunità
A giugno 2014 SVEP ha attivato il Protocollo d’Intesa Sperimentale insieme all’Ufficio E.P.E. di Reggio Emilia, Parma e Piacenza, in collaborazione con alcune Organizzazioni di Volontariato e con la Camera Penale di Piacenza.
Con la firma del protocollo SVEP ha sottolineato l’importanza di sostenere una nuova idea di giustizia, la cosiddetta Giustizia Ripartiva (Restorative Justice), la quale rappresenta un percorso complesso che richiede un forte coinvolgimento della comunità locale, non solo sul piano tecnico, ma anche su quello culturale.
Ora, a distanza di più di un anno dalla firma del Protocollo, SVEP ha ritenuto di redigere una relazione di sintesi circa l’andamento quantitativo e qualitativo dell’attività prevista all’interno del documento e, in occasione della presentazione dello stessa, ha inteso organizzare un seminario di approfondimento rivolto alle organizzazioni di volontariato, agli avvocati, alle persone in messa alla prova, alla cittadinanza.
Quello che segue è il mio contributo alla pubblicazione:
“Bisognerebbe chiuderli in cella e buttar via la chiave!” Quante volte lo abbiamo sentito dire e, ammettiamolo, quante volte lo abbiamo pensato. Di fronte all’efferatezza di alcune cronache, il pensiero euristico non ha rivali e la lex talionis suona così giusta, specie se condita con benaltrismo abbondante e q.b. di demagogia.
C’è sempre qualcosa di più importante – oggi – cui pensare, piuttosto che a galeotti desiderosi di condizioni trattamentali migliori. Chi sbaglia paga; azione e reazione: ecco la ricetta pronta all’uso, in una società allergica alla complessità dei sistemi e degli ambienti. In barba a un certo buonismo dedito alle cause perse, sordo con gli onesti, oltraggioso verso le vittime.
Con queste premesse, parlare oggi di giustizia riparativa e di contestualizzazione dell’universo carcere nel tessuto sociale di un territorio è tanto contro-intuitivo quanto doveroso. Spostare l’oggetto dell’intervento, dal colpevole al danno prodotto, per esorcizzarne gli effetti, è una prova che solo una collettività matura può sperare di superare nel suo stesso, primario, interesse.
Da amministratore m’impegno molto a trasmettere l’importanza dell’agire condiviso, conscio che troppa autoreferenzialità, a più livelli, ci ha portato a perdere di vista i veri obiettivi, tra i quali diffondere cultura del vivere insieme, valori morali, educazione civica. Senza scomodare il “pensiero laterale”, i bisogni si leggono meglio se si ragiona in prospettiva, se si guarda avanti, oltre l’ovvio. Altrimenti è solo piccolo cabotaggio. In questo caso, foss’anche per mero calcolo e sospendendo sensibilità più alte, è piuttosto semplice cogliere non solo i costi, ma i ricavi sociali di modelli mirati al reinserimento e all’analisi critica del male fatto.
Non si può certo dire lo stesso per la “linea dura”, dove isolamento e repressione limitano i loro effetti alla contingenza di un periodo, restituendo poi soggetti ancora più emarginati e inclini alla recidiva. Eppure chi sostiene l’inasprimento delle pene in nome di una “tolleranza zero” nei fatti impraticabile, ha gioco facile sul sentire comune.
La tendenza a generalizzare che caratterizza questi tempi grami livella tutto e anche chi si è macchiato di colpe minori, ma ha in sé spazi di riscatto, per molti non merita sorte diversa dal criminale più incallito. Curiosa (e autolesionista) questa brama di infierire su chi, presto o tardi, sarà chiamato a un nuovo confronto con la società. Si tratta di un ritorno alla vita che va preparato con azioni mirate dentro il carcere e fuori dalle mura: occorrono sinergie, iniziative coordinate che accompagnino le persone a capire e volersi rimettere in carreggiata. Serve una semina, che parte dal garantire il rispetto della dignità e dell’umanità, il riempimento del tempo e degli spazi con attività motivanti, laddove il CPT indica come linea prioritaria “assicurare che i detenuti negli istituti di custodia cautelare possano trascorrere una ragionevole parte della giornata – 8 ore o più – fuori dalla cella”.
Nulla di tutto ciò è scontato. Anzi, si tratta di uno schema che impone un salto culturale non banale. È impellente quindi un coro di voci pronte a farsi eco; soggetti che si assumono responsabilità, votati a trasmettere ai cittadini le ragioni per cui è dannoso considerare quella carceraria una dimensione avulsa dal resto e antieconomico immaginare che la soluzione stia nel costruire nuove strutture.
Attraverso l’attività extra muraria, le persone possono essere coinvolte in opere gratuite di pubblico interesse, mentre i giovani che hanno abusato di alcol o psicotropi, la grande maggioranza dei “messi alla prova”, hanno l’occasione di espiare la pena senza entrare in contatto diretto con la detenzione vera e propria, (esperienza che può cambiare pericolosamente la vita).
Queste peculiarità rendono l’esecuzione penale esterna la metà di sfida più avvincente. Il nuovo corso, dentro le carceri, dipende solo – purtroppo – dalla lungimiranza delle singole direzioni e non può, se non in presenza di un volontariato particolarmente autonomo, critico e propositivo, essere influenzato dai cittadini.
Al contrario, tutte le azioni proiettate verso l’esterno vivono proprio sul coinvolgimento diffuso, trasformandosi in straordinarie occasioni di presa di coscienza e crescita collettiva, cui le amministrazioni, il terzo settore, i corpi intermedi sono chiamati a dedicarsi con la diligenza del “buon padre di famiglia”.
Far maturare una comunità e renderla strutturalmente più coesa e sicura non passa quasi mai dalle soluzioni semplici e più popolari: ciò nondimeno, una volta colte, le opportunità sono destinate a moltiplicarsi.
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