nuovi cittadini, partecipazione, società
Banalità rivoluzionarie

M5S vignetta profughiGiorni fa ho commentato su Facebook un’incommentabile vignetta con la caricatura di tre migranti, più simili a scimmie che a persone.

Ingenuo io a stupirmi di alcune giustificazioni, dei ma anche” tesi a rendere potabili espressioni bandite dal buon gusto.

Orbene, che ognuno abbia i propri pareri, a ogni latitudine ideologica, va da sé, ma come si decide di esprimerli, e come si accetta il contraddittorio, qualificano la narrazione e il livello del dibattito pubblico.

 

Non è tema da poco, perché incide sulla disaffezione di chi non si concepisce come un ultras da stadio e investe colpevoli ammiccamenti a posizioni estremiste.

C’è chi mi ha apostrofato perché “quando c’è un problema che non si sa o non si vuole risolvere, si demonizza chi denuncia la cosa”. O, peggio, chi ha riconosciuto “una vignetta infelice e becera” ma l’ha sdoganata, sorvolando su un’iconografia da ventennio fascista, dato che “per far presa sul popolino idiota, serve anche questo (…) siamo a livelli molto bassi e per far capire il senso di alcune cose, serve scendere ancora più in basso”.

Sarà, ma io la penso esattamente al contrario. Alcune scempiaggini si disinnescano ignorandole; fare spallucce su altre è invece una connivenza che rinnego.

Chi parla di “popolino idiota” non meriterebbe repliche. È la sciocca arroganza di chi vuole ancora più profondo il solco tra società e politica.

Sulla necessità poi di abbassare ancora il livello, ociù ragass che la banalità del male genera mostri e l’abitudine a certe retoriche confonde e spinge verso chine pericolose.

Viviamo tempi volgari: internet soppianta i luoghi fisici di dibattito e, protetti dalla tastiera di un computer, coltiviamo un imbarbarimento fatto di argomentazioni povere, linguaggio rozzo e intolleranza per le altrui opinioni.

Ci soddisfiamo nella polemica e nell’invettiva ma siamo sempre meno disposti a impegnarci sul serio. C’è un’architettura respingente, che fomenta il rigetto di chi “subisce” la politica nei confronti di chi la agisce.

A guardare i comportamenti di quelli che dovrebbero essere gli aggregatori di partecipazione, non c’è da stare allegri: i partiti tradizionali, nelle loro varie derivazioni, benché depositari di un enorme patrimonio culturale, faticano a recuperare credibilità, dopo anni persi in tutt’altro che a promuovere competenze e vero ricambio generazionale; non meglio gli apostoli del “nuovo”, ostinati a connotarsi con la delegittimazione sistematica dell’avversario e con un arianesimo ideologico inattaccabile e, temo, fine a se stesso.

Va a finire che per andare controcorrente serve il coraggio di tornare a essere un po’ noiosi. Senza scomodare le grigissime tribune degli anni Settanta, ci mancherebbe. Però questo analfabetismo civico di ritorno va pur contrastato in qualche modo.

I populismi e i loro stilemi non si rincorrono, non si sottovalutano, non si ignorano. Si combattono invece, con una nuova resistenza che mira a creare partecipazione consapevole.

La politica cambia la vita della gente: in meglio o in peggio, poco o tanto: ma la cambia. Starsene alla larga è un paradosso. Parimenti, è faccenda complessa e questa complessità va esplicitata, non nascosta dietro a slogan e hashtag.

Le persone hanno diritto ad avere coordinate (loro malgrado, a volte), a essere fornite di strumenti per decodificare la realtà. Devono poter capire che l’oggettività dei dati, l’approfondimento dei limiti e delle possibilità reali, il piano della discussione (locale, regionale, nazionale, internazionale) sono variabili importanti che pesano sulle decisioni di chi amministra.

Su scala generale si è persa la voglia di andare a fondo, di capire, di elaborare idee a partire da una conoscenza di base. La stessa, capitale, differenza tra democrazia rappresentativa (quale siamo) e plebiscitaria (come qualcuno vorrebbe) è ormai un’idea confusa, che alimenta false aspettative da una parte e alibi deresponsabilizzanti dall’altra.

Chi è eletto non può cercare scappatoie dall’onere/onore di prendere decisioni, magari con sondaggi in rete dove i “si” e i “no” derivano quasi sempre da opzioni indipendenti dalla reale padronanza dell’argomento in questione.

Spendersi per rimediare a un tale cortocircuito è il modo migliore per prendere le distanze da chi fa sterile propaganda. Una strategia che costa fatica e non garantisce un ritorno immediato in termini di consenso.

Sullo “scatto breve”, la serietà avrà sempre la peggio contro la demagogia. Sulla “lunga distanza” invece non può esserci competizione. La fiducia si fonda sulla conoscenza.

Oggi va riconquistata questa fiducia, sudandosela con passione e sacrificio, col sorriso di chi è serio senza essere serioso (i populisti non ridono, troppo presi a cercare nemici e lanciar crociate!), privilegiando il confronto critico ai proselitismi, l’assunzione di responsabilità alla bulimia referendaria, la cultura e un certo stile alla trivialità di messaggi pret a porter, buoni solo a solleticare le pulsioni del momento.

Banalità rivoluzionarie, mi vien da dire…

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nuovi cittadini
PROFUGHI e leggende urbane
È inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.- Italo Calvino

RumorsCome i coccodrilli nelle fognature, l’autostoppista fantasma e le teorie del complotto, si sta diffondendo a Piacenza la nuova leggenda urbana sui profughi.

30 euro al giorno più 2,50 euro per le sigarette e tariffe agevolatissime per l’uso del cellulare. Questo sarebbe il trattamento riservato, in spregio alla crisi e alle difficoltà dei piacentini.

Il punto è, come per ogni leggenda che si rispetti, che qualcuno ci crede. Ok allora, smontiamo la favola una volta per tutte. NON E’ VERO NIENTE. Che sia chiaro, perché credere a ‘sta fandonia destabilizza.

Chi la butta in giro allora? Due categorie di imputati: gli ignoranti e gli sciacalli della politica (eh già, siam sotto elezioni). 30 euro al giorno vanno in tasca a quelli che si occupano del vitto e dell’alloggio. Purtroppo con la crisi la fila di alberghi, ostelli, bed & breakfast, agriturismo disposti a rispondere “presente” per 30 € è lunga.

Si può essere d’accordo o meno ma è un dato di fatto che sono soldi che tornano in circolo a dare ossigeno ad attività alberghiere e di ristorazione locali.

I profughi vedono i 2,50 euro. Nessuna tariffa agevolata per l’uso del cellulare, solo una scheda telefonica per una telefonata intercontinentale.

Per questa nuova emergenza l’Amministrazione non distoglie un euro al sistema di welfare territoriale. Stiamo continuando con la linea dell’equilibrio tra solidarietà umana ed equità sociale e non abbiamo intenzione di assecondare chi vorrebbe scindere i due principi. Abbiamo dato risposte molto nette di fronte ai casini degli ultimi tre mesi e nessuno sta ottenendo dal Comune di Piacenza favoritismi di alcun tipo, né li riceverà in futuro.

Se poi da Roma o da Bruxelles arriveranno progetti specifici e relative risorse, questo è un altro paio di maniche.

A chi non ha altri argomenti se non attaccare un certo buonismo, ricordo che la responsabilità della gestione dei nuovi arrivi è in capo alle Prefetture, che amministrano i fondi, individuano i gestori privati e tirano le fila dei rapporti con i soggetti disponibili a fornire aiuto e accoglienza.

I “punti di raccolta” decisi dal Ministero sono i comuni capoluogo. Questo vuol dire che i flussi sono indirizzati qui a Piacenza. Siamo d’accordo? Non siamo d’accordo? Siam buoni o cattivi? Chissenefrega! Il Ministero mica ci chiede il permesso in anticipo, anzi: di solito siamo informati a stretto giro dall’arrivo dei pullman.

Preso atto di ciò, abbiamo detto subito al Presidente della Provincia e a tutti i Sindaci degli altri Comuni: “signori, un po’ per uno“. La Prefettura ha condiviso e si è attivata per favorire il confronto.

Risultato? A parte pochi illuminati, per il resto sonore pernacchie. Molte scuse, alcune delle quali sarebbe un insulto all’intelligenza definire credibili.

Vuoi mettere quanto è facile dire “non li vogliamo, stiano a casa loro” e lasciarci con il cerino in mano? Oltre il conto ci sono le elezioni, l’occasione perfetta per dar fiato agli slogan e perdere il coraggio di assumersi le responsabilità meno popolari, ancorché necessarie.
Povera Italia

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politica
Verso il congresso provinciale del PD di Piacenza

Antonio Gramsci odiava gli indifferenti, io aggiungo i massimalisti. E penso al Partito Democratico in generale e al prossimo Congresso provinciale del PD di Piacenza.

Disimpegno e intransigenza sono, su versanti opposti, un problema per la politica e così, tra un elettorato in libera uscita, un astensionismo al suo massimo e le bizze di una classe dirigente che sembra più attenta a questioni regolamentari e a posizionamenti che al numero di disoccupati senza prospettive, eccoci a considerare un partito che sulle polarità in perenne conflitto sta consumando la sua esistenza.

Noi qui, attori e un po’ complici di uno spettacolo indegno delle tradizioni storiche e politiche che del PD costituiscono la nervatura.

Tutti a vedere nelle correnti il male assoluto ma pochissimi disposti ad ammettere che il vero anello debole sono quei soggetti incapaci di trovare un punto di caduta condiviso tra le diverse sensibilità, gli arroccati sul pregiudizio, quelli che trasformano l’elaborazione in scontro ideologico o generazionale: i “taliban” insomma; ogni area ha i suoi.

È un dato che la produzione di idee nel partito sia stata lasciata a un numero sempre maggiore di teorici (o presunti tali) finendo col rinunciare al contributo vitale della “forza lavoro”, di quella base ormai relegata ad attaccare manifesti, fare banchetti o cuocere spiedini sulle feste ma che dimostra spesso di arrivare al nocciolo delle questioni prima e meglio di tanti notabili. Frustrata nel senso di appartenenza e poco ascoltata.

Questa assenza progressiva di partecipazione e condivisione ha cristallizzato le posizioni di minoranze al potere, sempre meno capaci di una discussione realmente costruttiva, sempre più interessate alle rendite di posizione.

Bisogna opporsi con forza all’idea di chiudersi al cambiamento, a chi considera il partito in senso ristretto, elitario. Il caparbio presidio della solita “mattonella” è fuori dal tempo e genera immobilismo, tanto in chiave politica quanto amministrativa.

Ugualmente però sarebbe sbagliato pensare che la soluzione stia nel fare tabula rasa di tutto, perchè il nuovismo acritico, che “getta il bambino con l’acqua sporca”, segna il continuo ritorno a un punto zero, altrettanto inefficace e dannoso.

Per questi motivi penso che la rivoluzione tra noi democratici sarà/sarebbe riuscire ad affrancarci da queste due interpretazioni radicali e declinare un vero percorso riformista, finalmente di contenuto e non solo di facciata.

Hai detto niente? Essere riformisti oggi significa esporsi alle critiche delle ali più estreme e all’ostilità di chi si muove un po’ più gattopardescamente.

Il vero riformismo non è autoreferenziale. Chiede quel senso di responsabilità e quello spirito di squadra cui altri si possono sottrarre, perchè è più facile distruggere che costruire, dividere che unire, contrapporsi che dialogare.

Parla al popolo senza essere populista; guarda al futuro e affronta i temi nella loro complessità, senza subordinare le singole prese di posizione sulla base del consenso immediato.

Per me questo deve essere il Partito Democratico e in proposito mi auguro che si smetta di filosofeggiare e si affronti il percorso congressuale in modo rapido e alla luce del sole.

So di chi auspica una figura tanto autorevole da mettere tutti d’accordo, dimenticando forse che abbiamo dovuto congelare un segretario uscente per non essere riusciti a convergere su un traghettatore per due o tre mesi; sento e leggo di chi non vuole parlare di nomi, perché prima verrebbe la sostanza.

Ecco, a tal proposito, non fingiamo di ignorare che chi vive il PD – ovunque – conosce a menadito le posizioni in campo, chi le rappresenta e chi le sostiene. Evitiamo le ipocrisie allora e cominciamo a farli, questi nomi: tanto – stringi, stringi – è lì che dobbiamo arrivare.

L’importante è che conservatori, riformisti, rottamatori e compagnia bella presentino candidature di alto profilo, se ne hanno. Persone capaci, credibili e al di sopra di ogni sospetto, degne di rappresentare tutto il partito una volta elette; moderate il giusto per sostenere la propria linea solo in virtù della sua forza intrinseca, pronti ad arricchirla mediando con gli altri punti di vista.

Servono visioni alternative basate sulla legittimazione reciproca, in grado di contrapporsi senza farsi la guerra ma indisponibili a patti di non belligeranza poco nobili.

Sbrighiamoci a risolvere queste “beghe” interne, perchè i temi davvero importanti sono altri: stanno fuori, in mezzo alla gente e la nostra missione è affrontarli e dare risposte concrete e risolutive.

Tutto il resto è accessorio.

partecipazione
Carcere, solidarietà e festival
Non amo i radicalismi, ma altrettanto fuggo dalle forme indefinite che inglobano tutto e il suo contrario.- Stefano Cugini

La Festa Nazionale del Terzo Settore organizzata dal Partito Democratico prima, il Festival del Diritto poi. Settembre si preannuncia un mese di grandi appuntamenti a Piacenza, accomunati dal fil rouge tematico della solidarietà. [more…]

Intorno a questo concetto di fondo ruotano altre suggestioni, su welfare, partecipazione, sicurezza, cittadinanza attiva, conflitti, su cui saranno incentrati dibattiti e approfondimenti.

Lo spunto per questa riflessione è stato un articolo del 23 agosto, in cui don Affri, cappellano della casa circondariale di Piacenza, parla di due detenuti che hanno scelto di usare i loro giorni di permesso per stare accanto ai terremotati dell’Emilia. Poche righe intrise di speranza e aspettative nei confronti di queste persone; una breve storia di solidarietà appunto, ricevuta e rimessa subito in circolo.

L’occasione mi sembra opportuna – alla luce dei recenti dati sull’aumento dei reati diffusi dal Sole 24Ore – per affrontare il tema scomodo del carcere e contrapporre una chiave di lettura alternativa a chi punta come al solito sulla pratica scorciatoia dell’allarme sociale. A muovermi non è scienza infusa, ma il desiderio di proporre alcune osservazioni un po’ meno a fior d’acqua.

Coniugare la solidarietà all’idea del crimine e della reclusione non è così semplice. Questi ultimi sono facce della stessa medaglia ma, mentre dare giudizi sull’azione in sé è pratica comune – spesso esercitata a sproposito, del mondo dietro le sbarre, di cosa succede dopo, si fa più fatica a parlare.

Sembra di puntare il dito su una brutta cicatrice che sfregia la città: si preferisce chiamarlo in causa con parsimonia, giusto se l’occorrenza è vantaggiosa, quasi a non voler disturbare il nostro quieto (mica tanto, ultimamente) vivere borghese.

Qui non si parla di aiutare bimbi senza famiglia, ma di pensare a galeotti che scontano una pena: «bisognerebbe buttar via la chiave», «ci vorrebbero i lavori forzati», «i penitenziari sono alberghi a quattro stelle» e via discorrendo, in un campionario di frasi fatte che noi brava gente impariamo molto presto a rivolgere ai cattivi, mai troppo puniti.

Il punto sta però proprio nella capacità o meno di affrontare il problema in modo serio, senza preconcetti. Di certo è difficile, perché chi dovrebbe aiutarci a capire preferisce tenerci sulla corda e chi avrebbe facoltà di replica non si sogna di esercitarla. Difficile. Soprattutto perché abbiamo bisogno di chi sbaglia: il capro espiatorio è una figura insostituibile, per la nostra armonia cognitiva e per la nostra coscienza svogliata.

Solidarietà, sicurezza, criminalità, carceri. E numeri. Si, perché le cifre sono importanti ma vanno interpretate con un minimo di onestà. Bisogna sapere e voler distinguere tra quello che appare e quella che è la realtà effettiva.

Prendiamo gli stranieri: gli immigrati delinquono più o meno di noi? Affidandosi al sentire comune la risposta vien da sé e per molti i numeri sono lì a certificalo.

Intanto, questione di non poco conto, il calcolo sulla minore o maggiore criminalità andrebbe fatto computando davvero tutti gli stranieri presenti in Italia, mentre le cifre ufficiali riguardano solo quelli effettivamente regolari (circa un quinto rispetto al totale); già questa accortezza vedrebbe crollare le percentuali del coinvolgimento degli immigrati rispetto ai delinquenti nostrani.

Non facciamoci poi trarre in inganno dal numero di stranieri nelle nostre carceri. A differenza degli italiani, non hanno di fatto possibilità di sottrarsi alla custodia cautelare: l’assenza di una rete sociale d’appoggio (manca una residenza e una famiglia che faccia da garante), rende quasi impraticabile la strada del rilascio in attesa del procedimento giudiziario. Stesso discorso vale per le misure alternative, di più difficile accesso per un immigrato che non per un italiano. Da questi presupposti è naturale che la popolazione carceraria sia così connotata.

Non bastasse – ma in pochi lo dicono – non vi è quasi traccia di rilevazioni che tengano in debita considerazione un elemento chiave quale il c.d. “numero oscuro”, ovvero quella fetta di reati (si pensi ai falsi in bilancio, alle evasioni fiscali, alla bancarotta fraudolenta, ai reati ambientali, alle frodi informatiche) nei quali statisticamente si annidano più italiani, quei parassiti in colletto bianco che in altri Stati chiamano criminali e trattano di conseguenza, mentre da noi continuano a recitare la parte dei furbi.

Quando snoccioliamo dati, purtroppo, abbiamo una generale tendenza a mettere sotto potenti riflettori “gli altri” e a nascondere più volentieri “i nostri”. De facto, lo straniero, reo di una delinquenza più di strada e molto meglio individuabile, finisce col diventare il candidato ideale su cui vengono stilati quei report e quelle statistiche che influenzano l’opinione pubblica.

Ma torniamo alla questione carceraria. Il superamento della concezione retributiva (in cui a una data violazione risponde una sanzione definita e uguale per tutti, a prescindere dalla personalità del soggetto) rappresenta la radicale innovazione in tema di politica criminale che ereditiamo dal ventesimo secolo.

L’evoluzione giurisprudenziale verso il principio del trattamento rieducativo e risocializzativo ha portato ad accantonare il sistema tariffario, in favore di una nuova idea di pena utile, capace non tanto di punire quanto piuttosto di eliminare i fattori che hanno portato alla delinquenza. È l’affermarsi del welfare state, con lo Stato garante e promotore del benessere sociale di tutti i cittadini.

Scelte politiche, si badi bene. La precisa volontà di costruire un percorso sanzionatorio meno gravoso per la società (anche e soprattutto in termini economici)  e con una minore esposizione al rischio di restituire un soggetto con poche prospettive di reinserimento e fortemente indiziato alla recidiva. Si è scelto di non decontestualizzare i detenuti dal mondo esterno, dimenticandoli in cella a riflettere sul male compiuto, ma di favorire atteggiamenti e stili di vita conformi alle norme sociali condivise.

Da queste impostazioni, pur oscillanti nei decenni tra letture più permissive e altre più restrittive, emerge l’incompatibilità tra il concetto di risocializzazione e l’assunto per cui serva “buttar via le chiavi”, nonché l’evidenza di un percorso di recupero vincolato al contributo collettivo.

Ed eccoci di nuovo alla solidarietà, intesa nella sua accezione migliore, come sforzo attivo verso chi ha bisogno di aiuto; anche senza volerlo torna, con prepotente evidenza, l’aspetto culturale. Una sensibilità profonda come quella di Alessandro Bergonzoni ha usato in proposito queste parole:

stabiliamo un rapporto tra asili e carceri, tra ospedali e scuole elementari per “andare a vedere” fin dall’età più giovane, per “usare le mani dell’anima”, per entrare con le stesse chiavi che dovrebbero buttare per darci la sicurezza, a far parte di cosa ci spetta (e ci aspetta), sia come futuri carcerati sia come future vittime

Una comunità è fatta di cinema, teatri, ospedali, sagre, campi sportivi, scuole, uffici,… carcere. È come giocare con i Lego: dobbiamo prendere quel mattoncino e spostarlo più vicino a tutti gli altri, ridurre le distanze fisiche, mentali e ideologiche.

Volenti o nolenti, non esistono altri a cui rimettere la competenza su questo tema. Farlo significa nascondersi, escludere una parte che è nostra a pieno titolo, rinviare ai nostri figli la ricerca di una soluzione più dignitosa e soprattutto più utile alla società globalmente intesa.

Scontare una pena è dolore, rabbia, devastazione psicologica e sociale, ma ha il dovere di essere anche e soprattutto speranza, per chi entra e per chi aspetta fuori, perché in carcere non ci finiscono solo i Riina, i Brusca e i Provenzano e per un delinquente irrecuperabile ci sono cento scelte sbagliate da non rifare, attimi girati male che non possono precludere un’altra opportunità.

Dentro a tutto ciò stanno temi come lo sviluppo delle misure alternative alla detenzione, la gestione del conflitto tra gli autori dei reati e le vittime (in senso lato, tra le rispettive famiglie o addirittura le comunità di appartenenza), l’ambizione volta a una pena veramente ecologica, così come l’amica Carla Chiappini ha definito

«quella che non lascia residui tossici nei condannati e nella società. O almeno ci prova»

In definitiva, benché coscienti che anche questo sistema è tutt’altro che perfetto, la constatazione del fallimento delle strategie repressive e una decisa presa di distanza da chi auspicherebbe, ancora e nonostante tutto, il ricorso a questo tipo di misure.

Serve uno sforzo verso la conoscenza, non l’impegno a costruire nuovi muri, nuove celle. È importante più che mai bandire il pregiudizio, coltivare il dubbio, aver voglia di approfondire.

Accedere a queste realtà con informazioni sempre e solo di seconda mano ci porta a dimenticare che dietro alle parole degli altri e alle immagini ci sono comunque le persone, anche quelle che decidono di rinunciare a un permesso per stare accanto ai terremotati.

La scelta, quando il nostro ego si trova di fronte a un alter in difficoltà, resta circoscritta tra l’abbandono e la solidarietà, con le relative conseguenze: non è necessario compierla per bontà d’animo, basta farlo per intelligenza.

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