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(Di)Partito Democratico

Il dovere di ripartire

"Rotta da cambiare e facce da mandare dietro alle quinte. Le tattiche emerse dalle ultime due assemblee nazionali sono uno schiaffo alla militanza autentica. Ultima chiamata”

| Tanti nomi e pochi contenuti

Man mano avanzano i candidati a Segretario nazionale. Nomi, ognuno più o meno vicino o identificativo di qualche area. Contenuti? Si spera arrivino. Ancora una volta però per me si parte dall'alto e non dal basso come si dovrebbe.

A luglio avevo riversato in un post tutta la delusione per come è gestito il Partito Democratico, ipotizzando un metodo per ribaltare la prospettiva e rimettere le scelte davvero in mano alla base. Non per niente parlavo di utopia: chiaramente, niente di quanto sperato è per ora lontanamente all’orizzonte.

Oggi non siamo un partito serio, per quanto le persone serie e appassionate non manchino: avere il coraggio di dirlo è il primo passo.

Sull’ambiente dove vogliamo andare? Cosa pensiamo di clima, fonti rinnovabili, energie alternative? I centri delle nostre città li pedonalizziamo o no? E le periferie le riqualifichiamo? Con quali risorse? La difesa dei diritti e delle libertà fondamentali è una priorità che supera le divisioni (es. ius soli)? E dei doveri, ne parliamo o é tabù? Che welfare abbiamo in testa? Generatività o assistenzialismo? Quali criteri di accesso ai servizi? Quale modello di sanità proponiamo per coniugare universalismo e sostenibilità? Il “pubblico” che ruolo deve avere e in quale misura? Progressivo disimpegno o gestione e coordinamento del sistema? Finanza o produzione? Lavoro, disoccupazione, precariato, sicurezza nelle fabbriche, strategie per il rilancio delle PMI. La burocrazia per noi é un giogo o garanzia di equità? Come contrastiamo la delocalizzazione? Quale approccio al mercato e alla concorrenza di paesi in cui la manodopera è sottopagata? Liberismo, protezionismo o intelligente regolamentazione? Davvero la scuola é così “buona”? E il sistema universitario? Siamo disposti ad affrontare le varie distorsioni o è lesa maestà? Su bullismo, dipendenze, inciviltà diffusa, … repressione o educazione civica? Furbi, approfittatori, amici degli amici: lavoriamo per isolarli (a prescindere dal grado di vicinanza, vera o presunta) o continuiamo a far sentire gli onesti una minoranza di “sfigati”? Quale rapporto con sindacati e rappresentanze varie? Disintermediazione o dialogo? E con gli elettori? C’è altro che non sia democrazia diretta o delega in bianco?

Giustizialisti o garantisti? La certezza della pena si può affrontare o fa troppo destra? Più o meno carceri? Recidive, riparazione, confronto tra rei, vittime e società, creazione di consapevolezza… Fisco: lo teniamo il punto fermo sulla progressività e pensiamo a una vera lotta contro l’evasione, senza condoni, espliciti o mascherati? Rivediamo il centralismo che sta asfissiando gli enti locali, specie quelli virtuosi, penalizzati da perequazioni dissennate? Inclusione o sfruttamento? Lotta tra poveri o nuova società? Immigrati o nuovi cittadini? Siamo disposti ad accettare che non tutti sono disgraziati da accogliere a braccia aperte?

E ancora, Partito liquido o territorialità strutturata?
Post-ideologia o radicamento valoriale? Populisti o popolari? Riformisti seri, turbo capitalisti o vetero qualcosa? Europeisti pro attivi o servi genuflessi?  Leaderismo o collegialità?  Consultazione periodica o chiamata alle armi alla bisogna? Primarie per gli iscritti o aperte a chiunque? Segretario e candidato premier sono figure sovrapponibili?

Merito o clientela? E il ricambio della classe dirigente? Si accetta che in politica passare il testimone non é contro natura, che si vive anche d’altro e che la contendibilità di ruoli e cariche deve essere autentica o si recide il filo della fiducia con i cittadini, quelli che devono mettere insieme il pranzo con la cena, i “repressi e socialmente frustrati” (PGB) Contingenza o prospettiva? Campagna elettorale permanente o artigiani dell’impegno civile?

E si potrebbe continuare. A lungo…

Urgono risposte credibili e azioni coerenti: è forse il tempo di una nuova QUESTIONE MORALE che, per recuperare l’idea originale di Enrico Berlinguer, non guardi solo ai tanti casi di disonestà e illegalità commessi nei partiti, nel mondo delle imprese e nella classe dirigente considerata nel suo complesso, ma contrasti «l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti», secondo il principio che la società esprime interessi del presente, le istituzioni – depositarie dell’interesse generale dello Stato – debbono avere invece una visione più lunga che guarda anche al futuro dei figli e dei nipoti, condividendo che, senza l’autonomia delle istituzioni, la mediazione costante tra presente e futuro viene a mancare, la democrazia si deforma e il populismo invade lo Stato.

Non bei discorsi impacchettati ai convegni, nei mordi e fuggi tra i circoli quando serve qualche comparsata per titar su un po’ di voti, o nei salotti radio-televisivi.

Oggi, leader, leaderini, aspiranti leader, non ci meritano! Non meritano l’impegno, la passione, la pazienza di noi militanti semplici, noi che attacchiamo i manifesti a tarda sera, teniamo aperte le sedi, ci giochiamo la faccia nei consigli comunali di paesi e piccole città. Parolai ormai impantanati nelle trattative al ribasso, cultori dell’attesa che serve all’auto-conservazione dei vostri posti ben pagati da politici di professione. Sentiamo parlare e continuiamo a vedere in TV chi ha svuotato di significato l’idea stessa di spirito di servizio, immolata sull’altare della gestione interessata del potere. Si è persa la sfida della sintesi, facendo degenerare litigiosità e incomprensioni. Stiamo soffocando, stanno togliendo l’ossigeno al bisogno che il Partito ha di ripensare in fretta il suo essere profondo.

Non ci interessa quale capo mostrerà i muscoli la prossima volta. Non è questione di nomi ma di identità e utilità sociale diffusa. Mancano visioni e interpreti capaci di dare esempi positivi.

Ai vertici non può che ambire una classe dirigente altra e mossa da rinnovata credibilità, quella che ormai aridi burocrati, che lo vogliano accettare o no, non hanno più e la cui assenza dovrebbe convincerli a rientrare nei ranghi, a tornare alla militanza autentica, al servizio di chi sarà chiamato per provare a ricostruire una comunità e una cultura dello stare insieme che hanno contributo a distruggere.

Ripartiamo. O non ripartiremo più.

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Utopia democratica

Sveglia!

"La coerenza è virtù importante, che alla lunga paga. Soprattutto, chi ti segue la percepisce. Inutile ostentare certezze che le tue parole smentiscono puntualmente. L'unico a cascarci, forse, sei tu.”

| Ribaltare la prospettiva

C'è tutto il tempo per dimostrare di aver capito la lezione. C'è il tempo per tornare ai contenuti, al dialogo, ai valori che non si svendono. Bisogna volerlo però...

Dopo le (auto)critiche, per chi è stato capace di farle, arriva il momento delle proposte.

Ma dal gruppo dirigente del Partito Democratico, capace di rimandare di mesi il congresso, perché tanto c’è tempo e gli elettori ci aspettano, per ora nulla. Vorrai mica per caso competere per davvero, senza sapere prima chi vincerà?

A noi poveri ultimi, legati a dei valori e sospesi tra l’incertezza che “il contenitore” sappia ancora rappresentarli e il cauto ottimismo nel vedere, dal basso, che in molti ancora credono davvero a una politica “altra”, resta il diritto alla provocazione.

Allora mi piacerebbe dire alla masnada di illuminati strateghi, con il mastice tra le terga e le poltrone romane, di farsi da parte (che tanto sembrano pugili suonati) e aprire a una nuova sfida di metodo che ribalta le posizioni:

  • dimissioni in blocco della direzione, da sostituirsi con una commissione congressuale formata da giovani under 40 indicati dai circoli dei territori, cui si aggiungano alcuni padri fondatori, tra i più rappresentativi e tra chi nel tempo ha dimostrato senso della misura e desiderio di includere (Veltroni, Prodi, tanto per citarne un paio).
  • avvio nei circoli di un percorso di contatto e confronto con la cittadinanza tutta dei rispettivi territori (elettori, simpatizzanti, critici, civismo spontaneo e organizzato, mondo sindacale, terzo settore, …) per avere idee e “polso” su cosa dovrebbe essere, nella logica di una vera rinascita, il Partito Democratico. Bagno di realtà? Si potrebbe vedere così!
  • Sulla base degli spunti dei territori e dei lavori della commissione, avvio del percorso di creazione delle mozioni congressuali, in senso fondativo e per questo senza leadership precostituite ma focalizzate sui contenuti di visione, contingente e prospettica, per rendere chiaro cosa vorrà essere il prossimo PD, come svilupperà la propria democrazia interna, quanto si farà contenibile, quale credibilità saprà darsi in termini di ascolto e coinvolgimento diffusi, quali battaglie vorrà combattere, chi vorrà rappresentare, di quali temi si farà portatore, come intende la questione europea, ambientale, il tema del lavoro, dei diritti, …
  • Elaborazione “dal basso” delle mozioni, partendo da bozze territoriali che via via si confrontano e si portano a sintesi nei livelli intermedi, fino ad arrivare a un congruo numero di proposte a livello nazionale. Basta mozioni calate dall’alto col nome del leader e fatte digerire nei circoli. Perdendo ovunque, ci siamo dati il tempo per riprovare percorsi di dialogo e confronto seri. Approfittiamone.
  • organizzazione di una tornata iniziale di primarie sui contenuti delle mozioni – SENZA indicazioni della leadership.
  • seconda tornata di primarie, con un congruo lasso di tempo per permettere a livello locale il dibattito, gli approfondimenti e le proposte sulla mozione scelta alle primarie, per dare un segretario e una classe dirigente, con un percorso di selezione dal basso verso l’alto, dai livelli locali, provinciali, regionali, per arrivare alla candidatura nazionale.
    Sistema per nulla snello, ma almeno credibile, che è poi il tratto che più ci manca oggi.

Serve una scossa e io amo la complessità, quando la posta è importante. Provocazione? Sciocchezze irrealizzabili? Dopo quello a cui ci hanno abituato negli ultimi periodi, in quanto a dignità, niente può dirsi sconfitto in partenza…

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Tertium non datur

Tertium non datur

"Ci siamo risvegliati nel modo più traumatico possibile da anni in cui la politica per il cittadino è arrivata seconda dietro alle mille beghe interne. Abbiamo scelto di essere prigionieri di noi stessi e delle nostre debolezze”

| Il castello è venuto giù

Assumersi la responsabilità di mettersi al servizio di una storia da salvare, che coinvolge migliaia di piacentini nei valori di un centro-sinistra moderno, riformista e progressista, tornando a dare un’identità chiara e riconoscibile. Ricetta semplice ma dannatamente impegnativa.

Il castello del Partito Democratico è crollato. I rattoppi non servono più: bisogna ricostruire. Possibilmente insieme.

Io credo (ancora) ai valori della nascita, non mi rassegno a un’involuzione che si è fatta baratro e mi oppongo a interpretazioni della realtà ormai scollegate dalla base.

Ci siamo risvegliati nel modo più traumatico possibile da anni in cui la politica per il cittadino è arrivata seconda dietro alle mille beghe interne. Abbiamo scelto di essere prigionieri di noi stessi e delle nostre debolezze, abbiamo avuto paura di chiedere aiuto alla nostra gente, di ascoltarne gli umori, di interpretarne le sollecitazioni.

Adesso, o si rigenera, o si sparisce, tertium non datur.

Assumersi la responsabilità di mettersi al servizio di una storia da salvare, che coinvolge migliaia di piacentini nei valori di un centro-sinistra moderno, riformista e progressista, tornando a dare un’identità chiara e riconoscibile, da troppo tempo venuta meno. Ricetta semplice ma dannatamente impegnativa.

L’anno zero ci è imposto dagli elettori e non solo dopo il 25 giugno. La cronaca recente a Piacenza pone il Partito Democratico di fronte a sconfitte in serie, sia sul piano politico che amministrativo, con una provincia ormai trainata da destre più o meno radicali.

Prendiamo atto di dinamiche trite, figlie di un partito ripiegato su se stesso e su fazioni in perenne scontro, abbandonato dagli iscritti e succube di leader non disposti ad accettare che nell’immaginario della nostra base rappresentano ormai il professionismo della politica, intento ad auto perpetuarsi e lontano dal c.d. “mondo reale”. Facciamo mea culpa per aver sacrificato, sull’altare di queste logiche distorte, candidati e amministrazioni, tra cui Fiorenzuola e Piacenza, con l’onta di una disfatta dalla portata senza precedenti proprio nel capoluogo. Pareva esserci assuefazione e su questo c’è chi ha pensato di poter vivere di rendita.  Il voto ha dimostrato invece rigetto.

Un partito che sa solo litigare è debole per definizione. Non aiuta i suoi eletti e amministratori, non si cura dei suoi iscritti e militanti.

L’errore più grave oggi sarebbe tanto auto-assolversi, quanto andare all’ennesima resa dei conti. Tanto dirottare colpe, quanto sminuire ricorrendo a elementi ineludibili ma parziali come la scissione, il trend nazionale e l’elevato astensionismo, che al contrario devono stimolare in tutti riflessioni ancora più pronte. Se continueremo a soddisfarci della narrazione che si fa al nostro interno, sempre più piccolo e deluso, si basi questa su prove di forza, conte o flebili equilibri dettati dall’interesse del momento, possiamo star certi che il declino sarà inesorabile e neppure troppo lento. Al contrario, se torneremo a elaborare politiche reali e a condividere posizioni concrete con i cittadini, nessun nuovo traguardo sarà fuori dalla nostra portata, primo tra tutti quello di tornare alla guida della città già nel 2022.

Oggi abbiamo consegnato Piacenza alla destra per demeriti nostri. Ci siamo regalati cinque anni, per domandarci ogni giorno come tornare ad appassionare i piacentini, a convincerli di essere soggetto coerente e credibile. È questione di qualità dell’offerta politica, d’identità precisa e dell’etica di chi vuol rappresentare comunità di persone.

Discontinuità è la parola simbolo di questi ultimi 6 mesi. Ora l’esigenza si sente ancora più forte.

I segretari, provinciale e cittadino, si sono dimessi con un gesto di apprezzabile dignità politica, ma non si può pensare che bastino un paio di “teste” per sistemare tutto, perché il punto non è quello.

Siamo alla prova del nove, dobbiamo dimostrare e dimostrarci che la strada nuova è intrapresa con convinzione e non per mestiere. Serve voltare pagina, prima di tutto con un nuovo metodo, per farsi carico del rilancio e del massimo coinvolgimento possibile di tutti i militanti, degli amministratori, di chi ha incarichi politici, dei cittadini e delle forze che si riconoscono nei valori della nostra tradizione. I giovani si stancano di attaccare manifesti: devono diventare protagonisti.

Dobbiamo tornare a essere uno spazio di elaborazione permanente di sinistra, non un incubatore di consenso elettorale alla bisogna.

Il Partito Democratico di Piacenza non deve tornare TRA la gente, proposizione stanca e che sottende ancora una volta un “noi” e un “loro” ma DELLA gente, per ribadire autentico spirito di servizio e comunanza di intenti.

nuovi cittadini, welfare e sanità
PROFUGHI: la colpa è una bella donna…
È inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.- Italo Calvino

Come per i minori stranieri albanesi, anche per i profughi adulti non smetterò di denunciare una situazione grave, che incide sulla mancanza di un sistema d’accoglienza di qualità.

Per i piacentini noi dobbiamo continuare a battagliare, mettendoci tutto il senso di responsabilità necessario, anche supplendo a quello che a volte sembra mancare ad altri, specie a chi dovrebbe garantirci sonni tranquilli.

Siamo al paradosso. Che la Prefettura disponga l’esclusione dall’accoglienza di un profugo in dimissione dall’ospedale in seguito a una crisi psicotica è intollerabile.

Già è grave che il Comune non sia stato avvisato tempestivamente del caso, figuriamoci poi la scelta di buttare in mezzo a una strada una persona affetta da una patologia, a lungo ricoverata e compensata con farmaci specifici, un soggetto potenzialmente pericoloso per sé e per gli altri, confezionando un limbo che lo trasforma da accolto a fantasma, appunto.

È inaudito che gli uffici territoriali del governo, cui spetta la supervisione dell’ordine e della sicurezza, responsabili dell’immigrazione, pensino di risolvere in questi termini una questione così delicata, scaricando costi, impegno e rischi sull’ente locale.

Chi crea problemi va tenuto d’occhio, non disperso tra la folla. Se si decide di allontanarlo dal progetto di accoglienza, si prendono accordi con Bologna o Roma per ricollocarlo, magari in un CIE (centri di identificazione ed espulsione).

Finiamola di dare addosso ai Comuni, diffondendo rischi, sfiducia, disordine e preoccupazione. Un allontanamento una tantum poteva servire da monito. Ora è una procedura di cui si sta abusando, un escamotage per liberare posti per altre accoglienze.

Ai piacentini non interessa avere chi elimina dalla contabilità i soggetti problematici per poter dire altri “si” quando il ministero chiama per le consegne.

 

Da amministratore non voglio fantasmi per le strade della mia città: senza controllo, senza regole, senza documenti. O aspettiamo che succeda qualcosa d’irreparabile per affrontare il problema con la giusta responsabilità e le dovute competenze?

 

«Il fatto spiegato da Cugini é stato ieri NEGATO dalla Prefettura».

Si può essere in disaccordo su molte cose, pure su tutto, ma quando una persona é seria e commenta dei fatti, é oggettiva. Siccome sono una persona seria, CONFERMO la ricostruzione della vicenda parola per parola.

 

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società
CRONACA. Nuova casa a Porta Galera per il Partito Democratico
In politica vanno di moda quelli che sono “fedelissimi” di qualcun altro (che poi il “qualcun altro” cambi nel tempo è discorso a parte); io invece sono fedele ai valori che mi ha trasmesso la mia famiglia e alle idee che mi sono formato crescendo. E sono leale con chi è coerente nell’interpretare queste idee e questi valori.- Stefano Cugini

Sono amministratore di tutti i cittadini, ma faccio politica nel PD.

Il mio partito ieri mi ha confermato che non teme di scommettere sui luoghi fisici, che non cerca alibi, che vuole stare in mezzo alla gente. Soggetti” si diventa vivendo gli “spazi”, accorciando le distanze, traducendo idee complesse in linguaggi semplici; assumendosi responsabilità senza fare gli equilibristi.

C’é un popolo che ha bisogno di tornare a credere nella Politica. Tra chi é disposto a metterci la faccia, senza se e senza ma, io mi sentirò sempre a casa. Benvenuti a #portagalera!

Pd nuova casa nel quartiere multietnico

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società
UNIONI CIVILI. Sul registro non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire
Noi dobbiamo essere quelli che girano tra la gente, tendono le mani, lanciano messaggi, mostrano volti, propongono esempi. Partigiani dell’azione civile in un mondo con poca memoria, che prova ostinato a ripetere errori passati. ‪”Mai piú‬” o si costruisce giorno per giorno, o resta uno slogan che sa di muffa e ipocrisia.- Stefano Cugini

lgbt lillaSpettacolo indegno ieri in Consiglo comunale (purtroppo non è il primo).

All’ordine del giorno l’istituzione del Registro delle Unioni civili. Tema controverso, ideologicamente polarizzante, inutile perdita di tempo per alcuni, cogente necessità per altri.

Che la destra avrebbe alzato le barricate era prevedibile. La veemenza che ha scelto come strategia mi è francamente parsa una vergognosa mancanza di rispetto, in primis ai cittadini: quei cittadini cui ieri qualcuno ha “rubato” buona parte dei gettoni di presenza che ci saranno accreditati.

La triste realtà è che ieri, per un argomento ampiamente dibattuto in commissione, visto, scritto, limato ed emendato con buona trasversalità, sarebbero bastati 30 minuti. Alcuni sgamati colleghi (Lega e Pdl n.d.r.), molto esperti di Consiglio comunale, hanno deciso di trasformare tutto in un circo, arrivando a minacciare il tumulto d’aula, facendo sospendere i lavori e presentando un centinaio di emendamenti per l’unica ragione di fare ostruzionismo e finire sui giornali.

Colleghi che, per inciso, non sono nuovi a lasciarsi trasportare dalla foga oratoria, tradendo un’incoerenza di cui ogni volta si sprecano gli esempi.

Dico: come si fa a farsi scudo, peraltro impropriamente, della nostra Costituzione, accusare altri di usarla solo quando fa comodo e contemporaneamente firmare i propri documenti su carta intestata “Lega Nord per l’INDIPENDENZA della Padania? L’articolo 5 non parla per caso della nostra Repubblica come “una e indivisibile”? Almeno un po’ di decenza. Se ti senti di appartenere a qualcosa che non esiste e vuoi la secessione, lascia stare la Carta fondamentale, dai!

Un pomeriggio a sentir sbraitare di priorità trascurate in nome di questo ordine del giorno, con in testa la voglia di ricordar loro quando hanno presentato la richiesta di istituzione del cimitero per gli animali da affezione (!). Si badi, nessuno dice che il tema non è meritevole di essere affrontato, ma questo di certo non è propriamente una priorità, visti i momenti…

Registro delle Unioni civili, si diceva: per questa destra strillante, un inutile atto simbolico. Primo: se è tanto inutile perché sbattersi così per preparare più di cento emendamenti? Secondo: anche se fosse un mero atto simbolico (e per me non è così), esiste forse qualcosa di più simbolico di una donna di colore che non cede il posto a un bianco? Eppure da questo gesto di Rosa Parks è cambiata la storia dei diritti civili nel mondo. Quando si dice l’importanza di un gesto simbolico…

Tra le tante sciocchezze sentite ieri sera, alcune delle quali preferisco non commentare perchè riaprirebbero una mia ferita privata che fatico a rimarginare, mi ha dato fastidio in modo particolare il richiamo alla possibilità di risolvere la questione con semplici “atti notarili”, il bisogno espresso di trovare uno spazio intermedio tra una libera scelta (la convivenza) e un “impegno compiuto” (il matrimonio)

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Quale verità sul 118 di Piacenza
Qui si convien lasciare ogne sospetto; ogne viltà convien che qui sia morta.- Dante Alighieri, Inferno, canto III

ambulanzaVenerdì sera, al termine del Consiglio comunale ero affranto. Dico davvero: sconsolato dalla strumentalizzazione del dibattito sul 118 cui avevo assistito.

Oggi, dopo aver letto Libertà, dopo qualche telefonata e un po’ di sms, mi è venuta voglia di “buttar dentro”.

Ma si, che si faccia da parte il PD, che da mesi lavora e condivide in modo serio una visione matura e responsabile.

Ma si, lasciamo campo libero alla Lega e alla destra, ancora una volta in compagnia del M5S: che continuino ad arringare le folle con i loro slogan populisti.

Vediamo dove ci porterà la loro intransigenza.

Non mi dilungo sull’incredibile stravolgimento di quanto io e Stefano Borotti abbiamo detto in Consiglio comunale: i verbali con la trascrizione degli interventi sono pubblici.

Chi pensa che il nostro “j’accuse” di populismo fosse rivolto ai cittadini e ai rappresentanti del comitato non solo sbaglia, ma è in malafede.

Chi crede che il PD stia lisciando il pelo alla Regione per “velleità politiche” è tanto fuori strada quanto in errore. Cosa grave, dal momento che dall’inizio abbiamo chiarito la nostra posizione con una serie di interlocutori, proprio perché convinti dell’importanza di confrontarci con chi ha competenza indiscussa.

Tra questi, appunto, anche chi oggi veste i panni del detrattore.

Bene. Far politica implica assumersi responsabilità: cambiare opinione è legittimo. Se qualcuno lo ha fatto, lo dica. Noi no.

Vorrei chiedere a chi avrà la bontà di leggere, che razza di critica è quella che Tommaso Foti ha rivolto al nostro ordine del giorno. Lo ha definito una resa, la prova di ignorare l’ABC della politica perché – udite udite – “per ottenere cinque bisogna chiedere dieci”, perché se si parte dalla mediazione si arriverà a mediare sulla mediazione.

Punti di vista. Noi non vogliamo prendere in giro i piacentini. Abbiamo individuato quello che per noi è un punto di caduta che considera tutti i valori in campo e da lì non intendiamo muoverci.

Lo abbiamo detto a luglio, lo abbiamo ribadito venerdì. Noi non spariamo alto per poi mediare. Preferiamo individuare la soluzione che crediamo essere la migliore e non trattare più. Non abbiamo garanzie di successo, ma per noi è serio fare così.

Se a qualcuno non sta bene, massimo rispetto. Anche se quel qualcuno parla continuamente di efficienza e poi è contro la logica di Area vasta, anche se quel qualcuno a Piacenza è contro l’accorpamento del 118 e in Regione è a favore della fusione addirittura delle intere Ausl.

Il documento che abbiamo presentato e che riporto di seguito è frutto di tanti confronti e delle informazioni reperite dalle risposte date a più di un’interrogazione presentata (da tutte le forze politiche) all’assessore Lusenti.

Quei documenti li abbiamo chiesti e ottenuti noi, li aveva in mano il consigliere Foti, li può avere qualunque altro collega. In quei documenti la visione della Regione è abbastanza chiara.

Nessuno, PD escluso, ne ha fatto cenno. Nessuno ha parlato della disponibilità dichiarata dalla Regione a lasciare in capo alle singole Ausl l’emergenza territoriale. Lo sloganNO allo spostamento del 118, senza se e senza ma” è di certo più immediato.

Il PD di Piacenza non vuole fare sconti a Lusenti. Chiediamo anzi prove inconfutabili e conferma delle garanzie che ci sono state anticipate: per esempio, se il documento che definisce l’implementazione tecnologica non passa, cade tutto il discorso accorpamento. Queso è chiaro e fuori discussione.

Se però otterremo quanto chiesto con l’odg (e con il documento di luglio), avremmo fatto un ottimo servizio alla comunità, come riconosciuto dallo stesso Foti, prima di ritenerlo impossibile.

O forse, davvero, sarebbe meglio far qualche sorriso in più, lisciare sul serio qualche pelo in più – magari proprio agli amici del comitato – fare un po’ di cinema senza esporsi troppo.

O addirittura, lo ripeto, farsi proprio da parte. E aspettare la prima difficoltà degli altri per attaccare e provare noi, per una volta, il facile esercizio di critica distruttiva che così bene riesce all’opposizione.

  1. ordine del giorno 118_22112013
  2. Valorizzare_e_salvaguardare_il_sistema_118_a_Piacenza_17072013

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politica
Verso il congresso provinciale del PD di Piacenza

Antonio Gramsci odiava gli indifferenti, io aggiungo i massimalisti. E penso al Partito Democratico in generale e al prossimo Congresso provinciale del PD di Piacenza.

Disimpegno e intransigenza sono, su versanti opposti, un problema per la politica e così, tra un elettorato in libera uscita, un astensionismo al suo massimo e le bizze di una classe dirigente che sembra più attenta a questioni regolamentari e a posizionamenti che al numero di disoccupati senza prospettive, eccoci a considerare un partito che sulle polarità in perenne conflitto sta consumando la sua esistenza.

Noi qui, attori e un po’ complici di uno spettacolo indegno delle tradizioni storiche e politiche che del PD costituiscono la nervatura.

Tutti a vedere nelle correnti il male assoluto ma pochissimi disposti ad ammettere che il vero anello debole sono quei soggetti incapaci di trovare un punto di caduta condiviso tra le diverse sensibilità, gli arroccati sul pregiudizio, quelli che trasformano l’elaborazione in scontro ideologico o generazionale: i “taliban” insomma; ogni area ha i suoi.

È un dato che la produzione di idee nel partito sia stata lasciata a un numero sempre maggiore di teorici (o presunti tali) finendo col rinunciare al contributo vitale della “forza lavoro”, di quella base ormai relegata ad attaccare manifesti, fare banchetti o cuocere spiedini sulle feste ma che dimostra spesso di arrivare al nocciolo delle questioni prima e meglio di tanti notabili. Frustrata nel senso di appartenenza e poco ascoltata.

Questa assenza progressiva di partecipazione e condivisione ha cristallizzato le posizioni di minoranze al potere, sempre meno capaci di una discussione realmente costruttiva, sempre più interessate alle rendite di posizione.

Bisogna opporsi con forza all’idea di chiudersi al cambiamento, a chi considera il partito in senso ristretto, elitario. Il caparbio presidio della solita “mattonella” è fuori dal tempo e genera immobilismo, tanto in chiave politica quanto amministrativa.

Ugualmente però sarebbe sbagliato pensare che la soluzione stia nel fare tabula rasa di tutto, perchè il nuovismo acritico, che “getta il bambino con l’acqua sporca”, segna il continuo ritorno a un punto zero, altrettanto inefficace e dannoso.

Per questi motivi penso che la rivoluzione tra noi democratici sarà/sarebbe riuscire ad affrancarci da queste due interpretazioni radicali e declinare un vero percorso riformista, finalmente di contenuto e non solo di facciata.

Hai detto niente? Essere riformisti oggi significa esporsi alle critiche delle ali più estreme e all’ostilità di chi si muove un po’ più gattopardescamente.

Il vero riformismo non è autoreferenziale. Chiede quel senso di responsabilità e quello spirito di squadra cui altri si possono sottrarre, perchè è più facile distruggere che costruire, dividere che unire, contrapporsi che dialogare.

Parla al popolo senza essere populista; guarda al futuro e affronta i temi nella loro complessità, senza subordinare le singole prese di posizione sulla base del consenso immediato.

Per me questo deve essere il Partito Democratico e in proposito mi auguro che si smetta di filosofeggiare e si affronti il percorso congressuale in modo rapido e alla luce del sole.

So di chi auspica una figura tanto autorevole da mettere tutti d’accordo, dimenticando forse che abbiamo dovuto congelare un segretario uscente per non essere riusciti a convergere su un traghettatore per due o tre mesi; sento e leggo di chi non vuole parlare di nomi, perché prima verrebbe la sostanza.

Ecco, a tal proposito, non fingiamo di ignorare che chi vive il PD – ovunque – conosce a menadito le posizioni in campo, chi le rappresenta e chi le sostiene. Evitiamo le ipocrisie allora e cominciamo a farli, questi nomi: tanto – stringi, stringi – è lì che dobbiamo arrivare.

L’importante è che conservatori, riformisti, rottamatori e compagnia bella presentino candidature di alto profilo, se ne hanno. Persone capaci, credibili e al di sopra di ogni sospetto, degne di rappresentare tutto il partito una volta elette; moderate il giusto per sostenere la propria linea solo in virtù della sua forza intrinseca, pronti ad arricchirla mediando con gli altri punti di vista.

Servono visioni alternative basate sulla legittimazione reciproca, in grado di contrapporsi senza farsi la guerra ma indisponibili a patti di non belligeranza poco nobili.

Sbrighiamoci a risolvere queste “beghe” interne, perchè i temi davvero importanti sono altri: stanno fuori, in mezzo alla gente e la nostra missione è affrontarli e dare risposte concrete e risolutive.

Tutto il resto è accessorio.

società
SANITÀ: valorizzare e salvaguardare il sistema 118 a Piacenza
La politica deve essere operaia, fatta di esempio e sacrificio. Senza il primo non c’è credibilità. Senza il secondo manca la spinta al miglioramento.- Stefano Cugini

ambulanzaAl termine di una serie di incontri coordinati dal gruppo welfare, che hanno visto la partecipazione di più o meno tutti i c.d. stakeholders, come Partito Democratico di Piacenza abbiamo prodotto il documento che segue e che compendia la nostra posizione.

Mi sono occupato di scriverlo e penso che il risultato finale sia buono, utile per lo meno a rendere definitiva un’elaborazione partita circa un anno fa, con l’approvazione del mio emendamento alla mozione presentata dalla Lega Nord in Consiglio comunale.

Questo il testo, presentato mercoledì 17 in conferenza stampa:

Il Partito Democratico di Piacenza vuole contribuire con una presa di posizione ufficiale al dibattito in corso sul progetto regionale di ammodernamento del 118. Tema importante per la nostra comunità.

Premessa d’obbligo è l’auspicio che si parta da una condivisione della logica di Area Vasta che, coerentemente con le indicazioni programmatiche e con gli indirizzi regionali in materia, mira a favorire sinergie e comunione di risorse e a contribuire alla omogeneizzazione dell’offerta assistenziale sui migliori standard qualitativi, sia a livello di servizio che di supporto tecnologico.

Partendo da questo assunto, ci preme mettere a rendita il contributo fornito dal dibattito di questi mesi: individuare i temi su cui investire i nostri sforzi di concertazione con i vari livelli è infatti dirimente.

Siamo dell’opinione che concentrarsi solo sull’ubicazione logistica della Centrale di chiamata sia riduttivo e facilmente strumentalizzabile, nonché debole di fronte alla prevista dotazione di tecnologie informatiche all’avanguardia per il riconoscimento e la tracciabilità del numero chiamante.

Al contrario vogliamo investire su una presa di posizione a tutela della valorizzazione di peculiarità, professionalità ed eccellenze che il nostro territorio ha saputo sviluppare in questi anni, creando un modello di governance virtuoso e collaudato.

Parliamo di contratti, dislocazione dei mezzi di soccorso, composizione degli equipaggi, ruolo del volontariato, formazione del personale.

È proprio in considerazione della competenza dei nostri operatori in questi ambiti che vogliamo spenderci affinché Piacenza diventi il polo di coordinamento, l’interlocutore unico della CENTRALE OPERATIVA di area vasta.

È nostra ferma convinzione sollecitare tutti i portatori di interesse perché il modus operandi piacentino diventi standard di qualità e operatività anche in prospettiva di realtà accorpate.

Contestualmente a questa visione generale, chiederemo che il nuovo assetto offra una serie di garanzie molto precise, quali:

  1. il riutilizzo di tutte le risorse umane e finanziarie nel sistema di emergenza/urgenza territoriale;
  2. l’implementazione del trasporto d’emergenza nel territorio provinciale, laddove risultasse ancora carente;
  3. il governo dei trasporti tra ospedali, sia urgenti che ordinari;
  4. il mantenimento e la diffusione della procedura di “codice blu”, attraverso cui l’operatore 118 è in grado di allertare direttamente le Centrali di polizia Municipale, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Vigili del Fuoco e Carabinieri per il pronto invio di una pattuglia dotata di defibrillatore.
  5. la tutela del ruolo fondamentale del volontariato in considerazione del fatto che, tra l’altro, le Pubbliche assistenze piacentine sono state le prime a concludere positivamente il complesso iter di accreditamento. A tal proposito si chiede anzi di uniformare il percorso con tutte le direttive e le modalità stabilite a livello regionale e di riformulare la valutazione delle poche realtà territoriali non ancora accreditate.

Il Partito Democratico di Piacenza assicura con questo approccio il proprio impegno e la disponibilità al confronto con enti, associazioni e cittadini coinvolti.

Vittorio Silva – Segretario Provinciale
Paolo Dosi – Sindaco di Piacenza
Paola De Micheli – Parlamentare
Marco Carini – Consigliere regionale
Paola Gazzolo – Assessore regionale
Giovanna Palladini – Assessore Comune di Piacenza
Marco Bergonzi – Capogruppo Consiglio Provinciale
Stefano Borotti– Responsabile welfare
Stefano Cugini – Consigliere comunale di Piacenza

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partecipazione
Carcere, solidarietà e festival
Qui si convien lasciare ogne sospetto; ogne viltà convien che qui sia morta.- Dante Alighieri, Inferno, canto III

La Festa Nazionale del Terzo Settore organizzata dal Partito Democratico prima, il Festival del Diritto poi. Settembre si preannuncia un mese di grandi appuntamenti a Piacenza, accomunati dal fil rouge tematico della solidarietà. [more…]

Intorno a questo concetto di fondo ruotano altre suggestioni, su welfare, partecipazione, sicurezza, cittadinanza attiva, conflitti, su cui saranno incentrati dibattiti e approfondimenti.

Lo spunto per questa riflessione è stato un articolo del 23 agosto, in cui don Affri, cappellano della casa circondariale di Piacenza, parla di due detenuti che hanno scelto di usare i loro giorni di permesso per stare accanto ai terremotati dell’Emilia. Poche righe intrise di speranza e aspettative nei confronti di queste persone; una breve storia di solidarietà appunto, ricevuta e rimessa subito in circolo.

L’occasione mi sembra opportuna – alla luce dei recenti dati sull’aumento dei reati diffusi dal Sole 24Ore – per affrontare il tema scomodo del carcere e contrapporre una chiave di lettura alternativa a chi punta come al solito sulla pratica scorciatoia dell’allarme sociale. A muovermi non è scienza infusa, ma il desiderio di proporre alcune osservazioni un po’ meno a fior d’acqua.

Coniugare la solidarietà all’idea del crimine e della reclusione non è così semplice. Questi ultimi sono facce della stessa medaglia ma, mentre dare giudizi sull’azione in sé è pratica comune – spesso esercitata a sproposito, del mondo dietro le sbarre, di cosa succede dopo, si fa più fatica a parlare.

Sembra di puntare il dito su una brutta cicatrice che sfregia la città: si preferisce chiamarlo in causa con parsimonia, giusto se l’occorrenza è vantaggiosa, quasi a non voler disturbare il nostro quieto (mica tanto, ultimamente) vivere borghese.

Qui non si parla di aiutare bimbi senza famiglia, ma di pensare a galeotti che scontano una pena: «bisognerebbe buttar via la chiave», «ci vorrebbero i lavori forzati», «i penitenziari sono alberghi a quattro stelle» e via discorrendo, in un campionario di frasi fatte che noi brava gente impariamo molto presto a rivolgere ai cattivi, mai troppo puniti.

Il punto sta però proprio nella capacità o meno di affrontare il problema in modo serio, senza preconcetti. Di certo è difficile, perché chi dovrebbe aiutarci a capire preferisce tenerci sulla corda e chi avrebbe facoltà di replica non si sogna di esercitarla. Difficile. Soprattutto perché abbiamo bisogno di chi sbaglia: il capro espiatorio è una figura insostituibile, per la nostra armonia cognitiva e per la nostra coscienza svogliata.

Solidarietà, sicurezza, criminalità, carceri. E numeri. Si, perché le cifre sono importanti ma vanno interpretate con un minimo di onestà. Bisogna sapere e voler distinguere tra quello che appare e quella che è la realtà effettiva.

Prendiamo gli stranieri: gli immigrati delinquono più o meno di noi? Affidandosi al sentire comune la risposta vien da sé e per molti i numeri sono lì a certificalo.

Intanto, questione di non poco conto, il calcolo sulla minore o maggiore criminalità andrebbe fatto computando davvero tutti gli stranieri presenti in Italia, mentre le cifre ufficiali riguardano solo quelli effettivamente regolari (circa un quinto rispetto al totale); già questa accortezza vedrebbe crollare le percentuali del coinvolgimento degli immigrati rispetto ai delinquenti nostrani.

Non facciamoci poi trarre in inganno dal numero di stranieri nelle nostre carceri. A differenza degli italiani, non hanno di fatto possibilità di sottrarsi alla custodia cautelare: l’assenza di una rete sociale d’appoggio (manca una residenza e una famiglia che faccia da garante), rende quasi impraticabile la strada del rilascio in attesa del procedimento giudiziario. Stesso discorso vale per le misure alternative, di più difficile accesso per un immigrato che non per un italiano. Da questi presupposti è naturale che la popolazione carceraria sia così connotata.

Non bastasse – ma in pochi lo dicono – non vi è quasi traccia di rilevazioni che tengano in debita considerazione un elemento chiave quale il c.d. “numero oscuro”, ovvero quella fetta di reati (si pensi ai falsi in bilancio, alle evasioni fiscali, alla bancarotta fraudolenta, ai reati ambientali, alle frodi informatiche) nei quali statisticamente si annidano più italiani, quei parassiti in colletto bianco che in altri Stati chiamano criminali e trattano di conseguenza, mentre da noi continuano a recitare la parte dei furbi.

Quando snoccioliamo dati, purtroppo, abbiamo una generale tendenza a mettere sotto potenti riflettori “gli altri” e a nascondere più volentieri “i nostri”. De facto, lo straniero, reo di una delinquenza più di strada e molto meglio individuabile, finisce col diventare il candidato ideale su cui vengono stilati quei report e quelle statistiche che influenzano l’opinione pubblica.

Ma torniamo alla questione carceraria. Il superamento della concezione retributiva (in cui a una data violazione risponde una sanzione definita e uguale per tutti, a prescindere dalla personalità del soggetto) rappresenta la radicale innovazione in tema di politica criminale che ereditiamo dal ventesimo secolo.

L’evoluzione giurisprudenziale verso il principio del trattamento rieducativo e risocializzativo ha portato ad accantonare il sistema tariffario, in favore di una nuova idea di pena utile, capace non tanto di punire quanto piuttosto di eliminare i fattori che hanno portato alla delinquenza. È l’affermarsi del welfare state, con lo Stato garante e promotore del benessere sociale di tutti i cittadini.

Scelte politiche, si badi bene. La precisa volontà di costruire un percorso sanzionatorio meno gravoso per la società (anche e soprattutto in termini economici)  e con una minore esposizione al rischio di restituire un soggetto con poche prospettive di reinserimento e fortemente indiziato alla recidiva. Si è scelto di non decontestualizzare i detenuti dal mondo esterno, dimenticandoli in cella a riflettere sul male compiuto, ma di favorire atteggiamenti e stili di vita conformi alle norme sociali condivise.

Da queste impostazioni, pur oscillanti nei decenni tra letture più permissive e altre più restrittive, emerge l’incompatibilità tra il concetto di risocializzazione e l’assunto per cui serva “buttar via le chiavi”, nonché l’evidenza di un percorso di recupero vincolato al contributo collettivo.

Ed eccoci di nuovo alla solidarietà, intesa nella sua accezione migliore, come sforzo attivo verso chi ha bisogno di aiuto; anche senza volerlo torna, con prepotente evidenza, l’aspetto culturale. Una sensibilità profonda come quella di Alessandro Bergonzoni ha usato in proposito queste parole:

stabiliamo un rapporto tra asili e carceri, tra ospedali e scuole elementari per “andare a vedere” fin dall’età più giovane, per “usare le mani dell’anima”, per entrare con le stesse chiavi che dovrebbero buttare per darci la sicurezza, a far parte di cosa ci spetta (e ci aspetta), sia come futuri carcerati sia come future vittime

Una comunità è fatta di cinema, teatri, ospedali, sagre, campi sportivi, scuole, uffici,… carcere. È come giocare con i Lego: dobbiamo prendere quel mattoncino e spostarlo più vicino a tutti gli altri, ridurre le distanze fisiche, mentali e ideologiche.

Volenti o nolenti, non esistono altri a cui rimettere la competenza su questo tema. Farlo significa nascondersi, escludere una parte che è nostra a pieno titolo, rinviare ai nostri figli la ricerca di una soluzione più dignitosa e soprattutto più utile alla società globalmente intesa.

Scontare una pena è dolore, rabbia, devastazione psicologica e sociale, ma ha il dovere di essere anche e soprattutto speranza, per chi entra e per chi aspetta fuori, perché in carcere non ci finiscono solo i Riina, i Brusca e i Provenzano e per un delinquente irrecuperabile ci sono cento scelte sbagliate da non rifare, attimi girati male che non possono precludere un’altra opportunità.

Dentro a tutto ciò stanno temi come lo sviluppo delle misure alternative alla detenzione, la gestione del conflitto tra gli autori dei reati e le vittime (in senso lato, tra le rispettive famiglie o addirittura le comunità di appartenenza), l’ambizione volta a una pena veramente ecologica, così come l’amica Carla Chiappini ha definito

«quella che non lascia residui tossici nei condannati e nella società. O almeno ci prova»

In definitiva, benché coscienti che anche questo sistema è tutt’altro che perfetto, la constatazione del fallimento delle strategie repressive e una decisa presa di distanza da chi auspicherebbe, ancora e nonostante tutto, il ricorso a questo tipo di misure.

Serve uno sforzo verso la conoscenza, non l’impegno a costruire nuovi muri, nuove celle. È importante più che mai bandire il pregiudizio, coltivare il dubbio, aver voglia di approfondire.

Accedere a queste realtà con informazioni sempre e solo di seconda mano ci porta a dimenticare che dietro alle parole degli altri e alle immagini ci sono comunque le persone, anche quelle che decidono di rinunciare a un permesso per stare accanto ai terremotati.

La scelta, quando il nostro ego si trova di fronte a un alter in difficoltà, resta circoscritta tra l’abbandono e la solidarietà, con le relative conseguenze: non è necessario compierla per bontà d’animo, basta farlo per intelligenza.

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