rassegna stampa, società
CRONACA. Il dibattito tra partiti? Uno schifo
Non importa quello che stai guardando, ma quello che riesci a vedere.- Henry David Thoreau

raggi-6751É una mia fissa quella di aspettarmi una certa qualità in politica. Cinque anni fa ho provato per la prima volta quest’esperienza perché convinto di avere qualcosa di mio da aggiungere alla generale voglia di cambiamento.

Ci si impegna per migliorare il mondo, in fondo: poco o tanto, quel che conta è mettercela tutta. Leggo il polverone scatenato a Roma dal compenso che la Sindaca Cinque Stelle ha concesso al suo nuovo capo di gabinetto e penso a quanta strada ci sia ancora da fare.

Non intendo entrare nel merito della somma in sé, da sempre convinto che la professionalità deve essere retribuita il giusto. Trovo urticante la morale di quelli che sanno parlare solo di indistinti tagli di stipendi e indennità, qualunquisti che farebbero le fortune di mediocri e riciclati, ovvero delle uniche categorie infine disposte a ricoprire a prezzi di saldo incarichi di responsabilità.

Rilevo solo che il premio alla competenza dovrebbe valere sempre. Invece, finché ci saranno metalmeccanici, impiegati, neolaureati precari e compagnia bella a far fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, per non parlar di mutui prima casa, tutte queste iper premure verso manager e mega consulenti danno fastidio come la sabbia nel costume da bagno.

É questione di misura, di un rapporto che dovrebbe legare il minimo di chi ha meno con il massimo di chi ha di più. Divagazioni a parte, a mortificarmi è ancora una volta la figuraccia che ci fa la politica, ormai incapace di trattare un tema senza buttarla in rissa.

C’è n’è per tutti. Di nuovo zero rispetto per l’opinione pubblica, stiracchiata di volta in volta a fare il tifo da stadio per questo o quel contendente, allevata in cattività per accogliere solo verità di parte e ostilità per ciò che è altro.

Così i Cinque Stelle, dove tocca a loro, scoprono che amministrare le complessità è esercizio che poco si addice all’indole manichea e che tante dita puntate erano male indirizzate, dovendo fare ora né più né meno di chi li ha preceduti. Appurare che non tutti gli amministratori con idee diverse sono cialtroni corrotti e compiacenti dovrebbe essere motivo di soddisfazione, potrebbe servire a rasserenare un po’ gli animi e ridurre la schiuma alla bocca. In fondo, leggendola da grillino che non sono, significa che non è proprio tutto da buttare, che si può riformare anche senza tsunami.

E invece no. Alle critiche si oppone un vittimismo isterico, agli attacchi si risponde alzando ancora più il tiro. Il destinatario é sempre il popolo, da aizzare in nome del benaltrismo e della lesa maestà ai nuovi salvatori.

Sulla vicenda Raineri la contro accusa a chi la mena con il maxi stipendio, che ordirebbe addirittura un “editto contro tutta la magistratura” è una capriola retorica mal riuscita, un depistaggio insensato. Peccato, la pretesa infallibilità sa di artificiale, fa tanto ipocriti.

D’altro canto, il Partito Democratico, scimmiottando lo stesso modo di fare che biasima, se l’é cercata. Un po’ di buon gusto non farebbe male. Abbiamo ereditato una Capitale al collasso dalla gestione Alemanno (che, fortuna sua, sembra invece uscito dai radar dei commenti) e non abbiamo avuto/non ci siamo dati il tempo per raddrizzare la barca come avevamo promesso, facendo anzi di tutto per esasperare i cittadini. Per l’uomo della strada, chi ci capisce qualcosa nella conduzione della questione Marino alzi la mano. L’immagine dei circoli romani poi, non é certo cosa di cui andare fieri.

Ecco, allora, per decenza e per rispetto di chi vota, che va accompagnato nell’acquisire strumenti di comprensione e scelta e non trasformato in tifoso da curva, si lasci lavorare la neo-Sindaca. Sarebbe anche (e non solo) questione di stile, che non é scritto da nessuna parte debba essere avulso dal confronto politico.

Opposizione costruttiva, questa sconosciuta. Una chimera, rara a tutti i livelli, pure dalle parti di Piazza Cavalli. Si dia a Virginia Raggi un tempo senza sconti, segnando tutto, controllando tutto. Ma invece che occupare le sue giornate a rispondere agli stessi attacchi che subisce chiunque si trova l’onere di governare (se non é decadenza, questa…), ci si distingua, spiccando per senso di responsabilità, dandole il giusto spazio per dimostrare di che pasta é fatta, lei e la sua squadra.

Rendere “pan per focaccia”, tra strilli, cartelli e show in Consiglio comunale dà solo vita a uno spettacolo deprimente, indegno di chi ritiene di avere argomenti seri da mettere sul tavolo. Sei mesi bastano, poi si sceglierà tra il “complimenti”, il “si, però…”, il “non ci siamo proprio”, fino al “vergognati”. Allora non ci saranno alibi, per chi é chiamato al giudizio come per chi é tenuto a rendere conto.

In fine, un pensiero al “consumatore” politico, al “target” di queste campagne elettorali perenni: la gente, la massa, specchio fedele della classe di rappresentanti che vota (quando può), che farebbe bene a pensare un po’ di più alla legge della domanda e dell’offerta e al fatto che se questo brutto modo di far politica va per la maggiore, con il bizzarro a prevalere quasi sempre sul contenuto, è perché paga in termini di consenso.

Che ci si debba dare tutti una regolata?

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nuovi cittadini, società
CRONACA. L’on. Guidesi e la tiritera in camicia verde. Ancora e sempre “analfaleghismo”
Amministro come so fare il volontario. Non prometto agli altri meraviglie ma lavoro con gli altri per un mondo migliore. Tutti i giorni. Con l’ottimismo ignorante di chi lo crede possibile se fatto insieme. Avete mai visto un volontario fare promesse? Il volontario coglie un bisogno, si attiva per risolverlo, cerca chi lo può aiutare. Ai proclami preferisco la fatica.- Stefano Cugini

guidesi corte bossinaEccolo, puntuale come una zanzara a Mortizza, l’on Guidesi che supera il Po per lanciare il suo anatema padano contro il Comune di Piacenza.

Un “mordi e fuggi” ormai abituale. Non fosse un deputato, tenuto a sapere più di altri di cosa sta parlando, verrebbe da dubitare tra ignoranza (etimologicamente parlando, si intende!) e malafede.

Condizioni, entrambe, che mal si conciliano con l’interesse dei cittadini e con il lauto compenso dagli stessi pagati al giovine.

Da quale astruso ragionamento arriva il suo invito al Comune a “pagare quegli alloggi agli anziani, disoccupati e bisognosi piacentini”?

  • Gli alloggi per i profughi NON li trova il Comune,
  • I gestori NON li sceglie il Comune,
  • I contributi NON li paga il Comune.

O questa verità vale solo per i fieri amministratori in camicia verde, costretti a battersi
contro i brutti e i cattivi della sinistra buonista? Guidesi, citofonare Prefettura, prego!

Se poi è davvero interessato a sapere come e quanto ci prendiamo cura dei nostri anziani, disoccupati e bisognosi e/o vuol contribuire, mi consideri a sua disposizione.

politica
io e la Politica

politicaLa politica è bella e formativa. Dialogare e allargare la platea di chi sostiene progetti utili alla collettività è un bene assoluto.

Una sintesi al rialzo non annulla le diversità: le valorizza e le contempera.

Accettare un’informe poltiglia dove vale tutto e il contrario di tutto porta alle connivenze e, per reazione, ai populismi.

Sempre con ‘sta storia del post-ideologico. Che a furia di dirlo, diventa una scusa.

Lascio a storici, sociologi, politologi questa definizione e i suoi perché. A me basta sapere che se “ideologico” vuol dire settario e ripiegato su se stesso, come qualcuno ancora è, beh, cari miei, è la storia che ha messo la freccia ed è in sorpasso.

Se invece “ideologico” è chi non abbandona valori di riferimento, sensibilità da non svilire, limiti non valicabili, allora io di quel “post” non so proprio che farmene.

La coerenza di un percorso, ideali che possono adattarsi ma mai essere ribaltati, l’indisponibilità ad arruolare certi personaggi loschi e “diseducativi” devono essere principi non trattabili. I compagni di viaggio sono importanti, possono cambiare nel tempo ma una base comune di ragionamento e condivisione valoriale devono esserci, altrimenti è un accozzaglia bramosa del potere per il potere. Per questo non esistono scuse.

Il fine non giustifica i mezzi. Mai.

 

partecipazione
Carcere, solidarietà e festival
Noi dobbiamo essere quelli che girano tra la gente, tendono le mani, lanciano messaggi, mostrano volti, propongono esempi. Partigiani dell’azione civile in un mondo con poca memoria, che prova ostinato a ripetere errori passati. ‪”Mai piú‬” o si costruisce giorno per giorno, o resta uno slogan che sa di muffa e ipocrisia.- Stefano Cugini

La Festa Nazionale del Terzo Settore organizzata dal Partito Democratico prima, il Festival del Diritto poi. Settembre si preannuncia un mese di grandi appuntamenti a Piacenza, accomunati dal fil rouge tematico della solidarietà. [more…]

Intorno a questo concetto di fondo ruotano altre suggestioni, su welfare, partecipazione, sicurezza, cittadinanza attiva, conflitti, su cui saranno incentrati dibattiti e approfondimenti.

Lo spunto per questa riflessione è stato un articolo del 23 agosto, in cui don Affri, cappellano della casa circondariale di Piacenza, parla di due detenuti che hanno scelto di usare i loro giorni di permesso per stare accanto ai terremotati dell’Emilia. Poche righe intrise di speranza e aspettative nei confronti di queste persone; una breve storia di solidarietà appunto, ricevuta e rimessa subito in circolo.

L’occasione mi sembra opportuna – alla luce dei recenti dati sull’aumento dei reati diffusi dal Sole 24Ore – per affrontare il tema scomodo del carcere e contrapporre una chiave di lettura alternativa a chi punta come al solito sulla pratica scorciatoia dell’allarme sociale. A muovermi non è scienza infusa, ma il desiderio di proporre alcune osservazioni un po’ meno a fior d’acqua.

Coniugare la solidarietà all’idea del crimine e della reclusione non è così semplice. Questi ultimi sono facce della stessa medaglia ma, mentre dare giudizi sull’azione in sé è pratica comune – spesso esercitata a sproposito, del mondo dietro le sbarre, di cosa succede dopo, si fa più fatica a parlare.

Sembra di puntare il dito su una brutta cicatrice che sfregia la città: si preferisce chiamarlo in causa con parsimonia, giusto se l’occorrenza è vantaggiosa, quasi a non voler disturbare il nostro quieto (mica tanto, ultimamente) vivere borghese.

Qui non si parla di aiutare bimbi senza famiglia, ma di pensare a galeotti che scontano una pena: «bisognerebbe buttar via la chiave», «ci vorrebbero i lavori forzati», «i penitenziari sono alberghi a quattro stelle» e via discorrendo, in un campionario di frasi fatte che noi brava gente impariamo molto presto a rivolgere ai cattivi, mai troppo puniti.

Il punto sta però proprio nella capacità o meno di affrontare il problema in modo serio, senza preconcetti. Di certo è difficile, perché chi dovrebbe aiutarci a capire preferisce tenerci sulla corda e chi avrebbe facoltà di replica non si sogna di esercitarla. Difficile. Soprattutto perché abbiamo bisogno di chi sbaglia: il capro espiatorio è una figura insostituibile, per la nostra armonia cognitiva e per la nostra coscienza svogliata.

Solidarietà, sicurezza, criminalità, carceri. E numeri. Si, perché le cifre sono importanti ma vanno interpretate con un minimo di onestà. Bisogna sapere e voler distinguere tra quello che appare e quella che è la realtà effettiva.

Prendiamo gli stranieri: gli immigrati delinquono più o meno di noi? Affidandosi al sentire comune la risposta vien da sé e per molti i numeri sono lì a certificalo.

Intanto, questione di non poco conto, il calcolo sulla minore o maggiore criminalità andrebbe fatto computando davvero tutti gli stranieri presenti in Italia, mentre le cifre ufficiali riguardano solo quelli effettivamente regolari (circa un quinto rispetto al totale); già questa accortezza vedrebbe crollare le percentuali del coinvolgimento degli immigrati rispetto ai delinquenti nostrani.

Non facciamoci poi trarre in inganno dal numero di stranieri nelle nostre carceri. A differenza degli italiani, non hanno di fatto possibilità di sottrarsi alla custodia cautelare: l’assenza di una rete sociale d’appoggio (manca una residenza e una famiglia che faccia da garante), rende quasi impraticabile la strada del rilascio in attesa del procedimento giudiziario. Stesso discorso vale per le misure alternative, di più difficile accesso per un immigrato che non per un italiano. Da questi presupposti è naturale che la popolazione carceraria sia così connotata.

Non bastasse – ma in pochi lo dicono – non vi è quasi traccia di rilevazioni che tengano in debita considerazione un elemento chiave quale il c.d. “numero oscuro”, ovvero quella fetta di reati (si pensi ai falsi in bilancio, alle evasioni fiscali, alla bancarotta fraudolenta, ai reati ambientali, alle frodi informatiche) nei quali statisticamente si annidano più italiani, quei parassiti in colletto bianco che in altri Stati chiamano criminali e trattano di conseguenza, mentre da noi continuano a recitare la parte dei furbi.

Quando snoccioliamo dati, purtroppo, abbiamo una generale tendenza a mettere sotto potenti riflettori “gli altri” e a nascondere più volentieri “i nostri”. De facto, lo straniero, reo di una delinquenza più di strada e molto meglio individuabile, finisce col diventare il candidato ideale su cui vengono stilati quei report e quelle statistiche che influenzano l’opinione pubblica.

Ma torniamo alla questione carceraria. Il superamento della concezione retributiva (in cui a una data violazione risponde una sanzione definita e uguale per tutti, a prescindere dalla personalità del soggetto) rappresenta la radicale innovazione in tema di politica criminale che ereditiamo dal ventesimo secolo.

L’evoluzione giurisprudenziale verso il principio del trattamento rieducativo e risocializzativo ha portato ad accantonare il sistema tariffario, in favore di una nuova idea di pena utile, capace non tanto di punire quanto piuttosto di eliminare i fattori che hanno portato alla delinquenza. È l’affermarsi del welfare state, con lo Stato garante e promotore del benessere sociale di tutti i cittadini.

Scelte politiche, si badi bene. La precisa volontà di costruire un percorso sanzionatorio meno gravoso per la società (anche e soprattutto in termini economici)  e con una minore esposizione al rischio di restituire un soggetto con poche prospettive di reinserimento e fortemente indiziato alla recidiva. Si è scelto di non decontestualizzare i detenuti dal mondo esterno, dimenticandoli in cella a riflettere sul male compiuto, ma di favorire atteggiamenti e stili di vita conformi alle norme sociali condivise.

Da queste impostazioni, pur oscillanti nei decenni tra letture più permissive e altre più restrittive, emerge l’incompatibilità tra il concetto di risocializzazione e l’assunto per cui serva “buttar via le chiavi”, nonché l’evidenza di un percorso di recupero vincolato al contributo collettivo.

Ed eccoci di nuovo alla solidarietà, intesa nella sua accezione migliore, come sforzo attivo verso chi ha bisogno di aiuto; anche senza volerlo torna, con prepotente evidenza, l’aspetto culturale. Una sensibilità profonda come quella di Alessandro Bergonzoni ha usato in proposito queste parole:

stabiliamo un rapporto tra asili e carceri, tra ospedali e scuole elementari per “andare a vedere” fin dall’età più giovane, per “usare le mani dell’anima”, per entrare con le stesse chiavi che dovrebbero buttare per darci la sicurezza, a far parte di cosa ci spetta (e ci aspetta), sia come futuri carcerati sia come future vittime

Una comunità è fatta di cinema, teatri, ospedali, sagre, campi sportivi, scuole, uffici,… carcere. È come giocare con i Lego: dobbiamo prendere quel mattoncino e spostarlo più vicino a tutti gli altri, ridurre le distanze fisiche, mentali e ideologiche.

Volenti o nolenti, non esistono altri a cui rimettere la competenza su questo tema. Farlo significa nascondersi, escludere una parte che è nostra a pieno titolo, rinviare ai nostri figli la ricerca di una soluzione più dignitosa e soprattutto più utile alla società globalmente intesa.

Scontare una pena è dolore, rabbia, devastazione psicologica e sociale, ma ha il dovere di essere anche e soprattutto speranza, per chi entra e per chi aspetta fuori, perché in carcere non ci finiscono solo i Riina, i Brusca e i Provenzano e per un delinquente irrecuperabile ci sono cento scelte sbagliate da non rifare, attimi girati male che non possono precludere un’altra opportunità.

Dentro a tutto ciò stanno temi come lo sviluppo delle misure alternative alla detenzione, la gestione del conflitto tra gli autori dei reati e le vittime (in senso lato, tra le rispettive famiglie o addirittura le comunità di appartenenza), l’ambizione volta a una pena veramente ecologica, così come l’amica Carla Chiappini ha definito

«quella che non lascia residui tossici nei condannati e nella società. O almeno ci prova»

In definitiva, benché coscienti che anche questo sistema è tutt’altro che perfetto, la constatazione del fallimento delle strategie repressive e una decisa presa di distanza da chi auspicherebbe, ancora e nonostante tutto, il ricorso a questo tipo di misure.

Serve uno sforzo verso la conoscenza, non l’impegno a costruire nuovi muri, nuove celle. È importante più che mai bandire il pregiudizio, coltivare il dubbio, aver voglia di approfondire.

Accedere a queste realtà con informazioni sempre e solo di seconda mano ci porta a dimenticare che dietro alle parole degli altri e alle immagini ci sono comunque le persone, anche quelle che decidono di rinunciare a un permesso per stare accanto ai terremotati.

La scelta, quando il nostro ego si trova di fronte a un alter in difficoltà, resta circoscritta tra l’abbandono e la solidarietà, con le relative conseguenze: non è necessario compierla per bontà d’animo, basta farlo per intelligenza.

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