welfare e sanità
Ombre di destra sul welfare

Periodo duro per gli aspiranti Sindaco, sballottati qua e là a incontrare persone e associazioni per promuovere la loro idea di futuro.

La candidata della destra dimostra particolare attenzione ai temi sociali (bene) e così, dopo le case popolari e la violenza sulle donne, prova a dire la sua sul welfare in generale.

Si nota, per lo meno, un sensibile cambio di toni: non più un attacco a testa bassa, solo l’immancabile frecciatina elettoral-propagandistica. Ci sta, dai.

Peccato che ancora una volta manchi il bersaglio.

“Ho intenzione di ribaltare l’ottica dei servizi sociali incatenati a sistemi assistenzialisti per entrare finalmente e concretamente nell’era della sussidiarietà“.

Che sussidiarietà e contrasto all’assistenzialismo siano due capisaldi del nuovo welfare non ci piove: lo dico da sempre.

Che invece ci sia un’ottica da ribaltare è falso, dato che a Piacenza la reciprocità l’abbiamo introdotta noi da più di due anni. E si che, di nuovo, chi la consiglia ha di certo preso parte a quell’interminabile commissione welfare che per il centro destra in Comune doveva servire a dimostrare i vizi di un sistema e si è invece risolta nella conferma forzosa della bontà del lavoro svolto.

ATTENZIONE! Bisogna però leggere tra le righe della dichiarazione per capire quale piega la nostra vuol far prendere al sociale…

Se parliamo di welfare mix, anche in questo caso abbiamo amministrato valorizzando al massimo il principio di integrazione tra pubblico e privato. Lo affermo avendo i dati dalla mia parte.

Mentre però da sempre sostengo la necessità politica di mantenere in capo all’ente pubblico una forte funzione di coordinamento del sistema, da destra la cosa è vissuta come un fastidioso prurito.

In consiglio comunale hanno spesso sostenuto il bisogno (a dir loro) di un welfare più “aziendalista”. Oggi, coerentemente con questa visione, Massimo Trespidi parla di buoni da erogare alle famiglie (e poi si arrangino loro), secondo il principio lombardo della sanità; Patrizia Barbieri, pur restando più sul vago, afferma che:

“Il Comune, nella gestione del welfare, dovrebbe sempre più delegare, sostenere e incentivare servizi e progetti del privato“ (…) In tal modo (…) potrebbe allocare meglio le proprie risorse umane ed economiche“

La direzione è diametralmente opposta al sistema emiliano romagnolo che ha reso il nostro impianto sociale e sanitario un modello a livello mondiale. La linea è quella, netta, dello smantellamento della presenza pubblica nel welfare, opzione che persino il privato sociale – quello che lavora bene e davvero conosce il senso profondo della sussidiarietà, ha sempre escluso.

D’altronde è la solita differenza tra chi “parte dalle lacrime” degli ultimi, di chi è più in difficoltà e chi invece è interessato solo a offrire servizi a quelli che se li possono permettere, perché per qualcuno…business is business!

È inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati.- Italo Calvino
curiosità, nuovi cittadini, risultati
BILANCIO SERVIZI SOCIALI. Lo sai che chi parla di tagli, mente sapendo di mentire?
Noi dobbiamo essere quelli che girano tra la gente, tendono le mani, lanciano messaggi, mostrano volti, propongono esempi. Partigiani dell’azione civile in un mondo con poca memoria, che prova ostinato a ripetere errori passati. ‪”Mai piú‬” o si costruisce giorno per giorno, o resta uno slogan che sa di muffa e ipocrisia.- Stefano Cugini

lite sul welfareOrmai siamo assuefatti alla banalità. Parliamo e pensiamo per slogan.

E allora io mi metto a dare i numeri, così vediamo di sfatare qualche mito: a Piacenza l’8,9% del bilancio 2015, relativamente ai servizi sociali, è dedicato all’immigrazione, in gran parte sui minori non accompagnati (era il 9,3% nel 2014). Il 36% lo destiniamo a tutti gli anziani (34,8% nel 2014). Il 23,3% va ad adulti e disabili (22,4% nel 2014). Il 25,7% ai minori (27,8 nel 2014).

È sguardo ampio o buonismo male indirizzato?

Diciamo di avere a cuore il bene comune ma finiamo col guardare solo a come perpetuare il nostro essere rappresentanti a prescindere, il nostro ululare alla luna. Tutti abbiamo colpa: ci accontentiamo di essere cittadini banali che eleggono politici banali che coltivano cittadini banali. Una spirale di comodità, di torpore stagnante.

Concepiamo e presentiamo un mondo in linea retta, fondato sul paradigma “stimolo-risposta”. Ormai ciechi alle complessità delle cose, alle reti, al bisogno di sintesi al rialzo.

Cerchiamo colpevoli invece di risposte, capri espiatori al posto di soluzioni. Demandiamo invece di impegnarci. Moralizzatori incalliti ma disposti sempre a nascondere la nostra polvere sotto al tappeto. Sentenziamo su tutto e sappiamo su così poco!

Orbene, la quota di risorse che un’amministrazione dedica al sociale ne qualifica l’azione in senso virtuoso. L’attenzione a cosa succede in una comunità è indice dell’agire responsabile.

Tra poveri, bisognosi, vulnerabili, individui ai margini non si imbastiscono guerre, ma cordoni di solidarietà, sostegno, accompagnamento alla ricerca di rinnovati gradi di autonomia.

La strategia di alcune forze politiche è chiara e pure redditizia. Pazienza. Io continuo a credere che ci resti in capo il dovere civile di spiegare, di far capire, di essere responsabili anche per chi sceglie di non esserlo. Il coraggio di fare scelte. Io faccio politica per questo.

 

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rassegna stampa, società
CRONACA. Cgil, sul welfare bene il confronto ma che la concretezza non soccomba all’ideologia
Un politico può promettere. Un amministratore deve dimostrare.- Stefano Cugini

cgilStupisce lo stupore e preoccupa la preoccupazione nella nota del segretario provinciale CGIL circa presunte convergenze in Consiglio Comunale a proposito del welfare locale. Stimo Gianluca Zilocchi, chiamato al difficile compito di guidare il sindacato in un momento così critico.

Penso però che un rinnovato senso di appartenenza tra gli iscritti si possa trovare anche senza dipingere l’amministrazione come interprete del neoliberismo conservatore tipico della destra. Oltre che non rispondere alla realtà, è quanto meno ingeneroso.

Ho letto con molta attenzione il comunicato e posso rassicurare sul fatto che abbiamo ben chiare le priorità, così come non ci sfuggono le reali condizioni economiche, con le quali ci troviamo a far di conto ogni giorno.

Ho più volte ripetuto che la linea è quella di mantenere e, laddove possibile, incrementare l’offerta dei servizi al cittadino. Per far questo non ci sono molte strade: la gestione diretta, fin dove le risorse lo consentono; lo sviluppo del sistema integrato con il privato sociale, quando non ci è più possibile arrivare da soli.

Sottolineando che anche questa opzione rientra nell’alveo del servizio pubblico (il privato propriamente inteso è un’altra cosa ancora), ricordo che l’alternativa è quella di contrarre la platea di beneficiari dei servizi. Ma non intendiamo percorrerla.

Comprendo il ruolo sindacale a difesa del lavoro pubblico, ma i nostri doveri richiedono uno sguardo più ampio, rivolto appunto a tutte le famiglie della nostra città.

Mi stupisco come si possa sostenere il bisogno di un sistema sempre più inclusivo e al tempo stesso accanirsi contro chi percorre esattamente quella direzione. L’obiettivo, giova ripeterlo, è e resta aiutare più persone possibile, moltiplicando le risorse, non solo economiche ma di capitale umano.

Il passaggio che meno comprendo è quello sulla non condivisione dell’idea di welfare comunitario e generativo, a meno che non ci sia fraintendimento sul reale significato di questi termini.

Il principio base della generatività è quello di superare la dipendenza assistenziale, responsabilizzando i beneficiari dei contributi pubblici e valorizzando le loro capacità. Non è più tempo di erogare prestazioni sociali che attenuano il bisogno individuale senza che queste comportino ricadute positive in termini di doveri di solidarietà. Ciò che una persona riceverà dai Servizi sociali dovrà servire per aiutare questa persona ma anche per metterla in condizione di aiutare altri.

È ovvio che gli anziani e i disabili saranno sempre a nostro carico, ma non vi è motivo perché, ad esempio, chi è senza lavoro non possa restituire, sotto forma di attività socialmente utili, quello che riceve per essere aiutato nei momenti di bisogno.

Già ora sono gli stessi cittadini che accolgo in ufficio a offrire le loro competenze in cambio di un contributo. Sempre più spesso è una questione di dignità. In tanti faticano a chiedere aiuto e non vorrebbero riceverlo a costo zero.

Quanto a parlare di welfare community, mi si spieghi come si può passare per conservatori nel ritenere che il nuovo stato sociale debba fondarsi sulla partecipazione attiva dei cittadini nella realizzazione e nel controllo dei servizi.

Gli interventi del c.d. “secondo welfare”, si pensi al welfare aziendale, alla filantropia o alle donazioni private, possono rappresentare una risorsa importante per integrare le prestazioni pubbliche, ma non vanno dispersi o mal gestiti.

Non si tratta di demandare o disimpegnarsi, ma di rendere più proficua la collaborazione tra sistema pubblico e cittadini, imprese, terzo settore.

Massima disponibilità al dialogo quindi, ma concordo con il segretario Zilocchi quando dice che il confronto deve essere inserito in un contesto preciso.

In assenza di ciò la concretezza cede all’ideologia e spostarci su questo piano oggi, nel pieno di una congiuntura economica tristemente nota a tutti, significa aggiungere sale sulle ferite che la crisi ha inferto ai piacentini.

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partecipazione
Carcere, solidarietà e festival
In politica vanno di moda quelli che sono “fedelissimi” di qualcun altro (che poi il “qualcun altro” cambi nel tempo è discorso a parte); io invece sono fedele ai valori che mi ha trasmesso la mia famiglia e alle idee che mi sono formato crescendo. E sono leale con chi è coerente nell’interpretare queste idee e questi valori.- Stefano Cugini

La Festa Nazionale del Terzo Settore organizzata dal Partito Democratico prima, il Festival del Diritto poi. Settembre si preannuncia un mese di grandi appuntamenti a Piacenza, accomunati dal fil rouge tematico della solidarietà. [more…]

Intorno a questo concetto di fondo ruotano altre suggestioni, su welfare, partecipazione, sicurezza, cittadinanza attiva, conflitti, su cui saranno incentrati dibattiti e approfondimenti.

Lo spunto per questa riflessione è stato un articolo del 23 agosto, in cui don Affri, cappellano della casa circondariale di Piacenza, parla di due detenuti che hanno scelto di usare i loro giorni di permesso per stare accanto ai terremotati dell’Emilia. Poche righe intrise di speranza e aspettative nei confronti di queste persone; una breve storia di solidarietà appunto, ricevuta e rimessa subito in circolo.

L’occasione mi sembra opportuna – alla luce dei recenti dati sull’aumento dei reati diffusi dal Sole 24Ore – per affrontare il tema scomodo del carcere e contrapporre una chiave di lettura alternativa a chi punta come al solito sulla pratica scorciatoia dell’allarme sociale. A muovermi non è scienza infusa, ma il desiderio di proporre alcune osservazioni un po’ meno a fior d’acqua.

Coniugare la solidarietà all’idea del crimine e della reclusione non è così semplice. Questi ultimi sono facce della stessa medaglia ma, mentre dare giudizi sull’azione in sé è pratica comune – spesso esercitata a sproposito, del mondo dietro le sbarre, di cosa succede dopo, si fa più fatica a parlare.

Sembra di puntare il dito su una brutta cicatrice che sfregia la città: si preferisce chiamarlo in causa con parsimonia, giusto se l’occorrenza è vantaggiosa, quasi a non voler disturbare il nostro quieto (mica tanto, ultimamente) vivere borghese.

Qui non si parla di aiutare bimbi senza famiglia, ma di pensare a galeotti che scontano una pena: «bisognerebbe buttar via la chiave», «ci vorrebbero i lavori forzati», «i penitenziari sono alberghi a quattro stelle» e via discorrendo, in un campionario di frasi fatte che noi brava gente impariamo molto presto a rivolgere ai cattivi, mai troppo puniti.

Il punto sta però proprio nella capacità o meno di affrontare il problema in modo serio, senza preconcetti. Di certo è difficile, perché chi dovrebbe aiutarci a capire preferisce tenerci sulla corda e chi avrebbe facoltà di replica non si sogna di esercitarla. Difficile. Soprattutto perché abbiamo bisogno di chi sbaglia: il capro espiatorio è una figura insostituibile, per la nostra armonia cognitiva e per la nostra coscienza svogliata.

Solidarietà, sicurezza, criminalità, carceri. E numeri. Si, perché le cifre sono importanti ma vanno interpretate con un minimo di onestà. Bisogna sapere e voler distinguere tra quello che appare e quella che è la realtà effettiva.

Prendiamo gli stranieri: gli immigrati delinquono più o meno di noi? Affidandosi al sentire comune la risposta vien da sé e per molti i numeri sono lì a certificalo.

Intanto, questione di non poco conto, il calcolo sulla minore o maggiore criminalità andrebbe fatto computando davvero tutti gli stranieri presenti in Italia, mentre le cifre ufficiali riguardano solo quelli effettivamente regolari (circa un quinto rispetto al totale); già questa accortezza vedrebbe crollare le percentuali del coinvolgimento degli immigrati rispetto ai delinquenti nostrani.

Non facciamoci poi trarre in inganno dal numero di stranieri nelle nostre carceri. A differenza degli italiani, non hanno di fatto possibilità di sottrarsi alla custodia cautelare: l’assenza di una rete sociale d’appoggio (manca una residenza e una famiglia che faccia da garante), rende quasi impraticabile la strada del rilascio in attesa del procedimento giudiziario. Stesso discorso vale per le misure alternative, di più difficile accesso per un immigrato che non per un italiano. Da questi presupposti è naturale che la popolazione carceraria sia così connotata.

Non bastasse – ma in pochi lo dicono – non vi è quasi traccia di rilevazioni che tengano in debita considerazione un elemento chiave quale il c.d. “numero oscuro”, ovvero quella fetta di reati (si pensi ai falsi in bilancio, alle evasioni fiscali, alla bancarotta fraudolenta, ai reati ambientali, alle frodi informatiche) nei quali statisticamente si annidano più italiani, quei parassiti in colletto bianco che in altri Stati chiamano criminali e trattano di conseguenza, mentre da noi continuano a recitare la parte dei furbi.

Quando snoccioliamo dati, purtroppo, abbiamo una generale tendenza a mettere sotto potenti riflettori “gli altri” e a nascondere più volentieri “i nostri”. De facto, lo straniero, reo di una delinquenza più di strada e molto meglio individuabile, finisce col diventare il candidato ideale su cui vengono stilati quei report e quelle statistiche che influenzano l’opinione pubblica.

Ma torniamo alla questione carceraria. Il superamento della concezione retributiva (in cui a una data violazione risponde una sanzione definita e uguale per tutti, a prescindere dalla personalità del soggetto) rappresenta la radicale innovazione in tema di politica criminale che ereditiamo dal ventesimo secolo.

L’evoluzione giurisprudenziale verso il principio del trattamento rieducativo e risocializzativo ha portato ad accantonare il sistema tariffario, in favore di una nuova idea di pena utile, capace non tanto di punire quanto piuttosto di eliminare i fattori che hanno portato alla delinquenza. È l’affermarsi del welfare state, con lo Stato garante e promotore del benessere sociale di tutti i cittadini.

Scelte politiche, si badi bene. La precisa volontà di costruire un percorso sanzionatorio meno gravoso per la società (anche e soprattutto in termini economici)  e con una minore esposizione al rischio di restituire un soggetto con poche prospettive di reinserimento e fortemente indiziato alla recidiva. Si è scelto di non decontestualizzare i detenuti dal mondo esterno, dimenticandoli in cella a riflettere sul male compiuto, ma di favorire atteggiamenti e stili di vita conformi alle norme sociali condivise.

Da queste impostazioni, pur oscillanti nei decenni tra letture più permissive e altre più restrittive, emerge l’incompatibilità tra il concetto di risocializzazione e l’assunto per cui serva “buttar via le chiavi”, nonché l’evidenza di un percorso di recupero vincolato al contributo collettivo.

Ed eccoci di nuovo alla solidarietà, intesa nella sua accezione migliore, come sforzo attivo verso chi ha bisogno di aiuto; anche senza volerlo torna, con prepotente evidenza, l’aspetto culturale. Una sensibilità profonda come quella di Alessandro Bergonzoni ha usato in proposito queste parole:

stabiliamo un rapporto tra asili e carceri, tra ospedali e scuole elementari per “andare a vedere” fin dall’età più giovane, per “usare le mani dell’anima”, per entrare con le stesse chiavi che dovrebbero buttare per darci la sicurezza, a far parte di cosa ci spetta (e ci aspetta), sia come futuri carcerati sia come future vittime

Una comunità è fatta di cinema, teatri, ospedali, sagre, campi sportivi, scuole, uffici,… carcere. È come giocare con i Lego: dobbiamo prendere quel mattoncino e spostarlo più vicino a tutti gli altri, ridurre le distanze fisiche, mentali e ideologiche.

Volenti o nolenti, non esistono altri a cui rimettere la competenza su questo tema. Farlo significa nascondersi, escludere una parte che è nostra a pieno titolo, rinviare ai nostri figli la ricerca di una soluzione più dignitosa e soprattutto più utile alla società globalmente intesa.

Scontare una pena è dolore, rabbia, devastazione psicologica e sociale, ma ha il dovere di essere anche e soprattutto speranza, per chi entra e per chi aspetta fuori, perché in carcere non ci finiscono solo i Riina, i Brusca e i Provenzano e per un delinquente irrecuperabile ci sono cento scelte sbagliate da non rifare, attimi girati male che non possono precludere un’altra opportunità.

Dentro a tutto ciò stanno temi come lo sviluppo delle misure alternative alla detenzione, la gestione del conflitto tra gli autori dei reati e le vittime (in senso lato, tra le rispettive famiglie o addirittura le comunità di appartenenza), l’ambizione volta a una pena veramente ecologica, così come l’amica Carla Chiappini ha definito

«quella che non lascia residui tossici nei condannati e nella società. O almeno ci prova»

In definitiva, benché coscienti che anche questo sistema è tutt’altro che perfetto, la constatazione del fallimento delle strategie repressive e una decisa presa di distanza da chi auspicherebbe, ancora e nonostante tutto, il ricorso a questo tipo di misure.

Serve uno sforzo verso la conoscenza, non l’impegno a costruire nuovi muri, nuove celle. È importante più che mai bandire il pregiudizio, coltivare il dubbio, aver voglia di approfondire.

Accedere a queste realtà con informazioni sempre e solo di seconda mano ci porta a dimenticare che dietro alle parole degli altri e alle immagini ci sono comunque le persone, anche quelle che decidono di rinunciare a un permesso per stare accanto ai terremotati.

La scelta, quando il nostro ego si trova di fronte a un alter in difficoltà, resta circoscritta tra l’abbandono e la solidarietà, con le relative conseguenze: non è necessario compierla per bontà d’animo, basta farlo per intelligenza.

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